Paròlle de Zena  | 
				
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		Il Bucato 
		
		 Un 
		tempo le bugàixe (lavandaie, invariabile al singolare e al plurale) 
		si recavano al tréuggio (trogolo o lavatoio), luogo di ciæti
		(pettegolezzi) e di ratèlle (liti), per lavâ i dràppi 
		(lavare i panni). I dràppi e la giancàia (biancheria) erano 
		lavati col savón (sapone) e battuti, per meglio pulirli, con una specie di 
		mestola detta batoêzo. Dopo averli aruxentæ (risciacquati) 
		si portavano a casa per la bugâ (bucato) vera e propria. Si mettevano in 
		un concón (concone) forato nel fondo e poi si coprivano con un panno detto 
		coòu o çenión (ceneraccio). Veniva quindi versata 
		ægoa e çénie (acqua e cenere) bollente per utilizzare la lescîa
		(lescivia o ranno), un detergente naturale. La lescîa era poi raccolta 
		attraverso il foro del concón per essere utilizzata nuovamente. Dopo 
		l’ultima ruxentâ (risciacquatura) i dràppi venivano rimessi 
		a bagno insieme col turchinétto (blu oltremare) per dare al bianco una 
		tonalità azzurrina. Occorreva poi desténde a bugâ (stendere il bucato) e, 
		quando si poteva, scioâ a bugâ a-o sô (sciorinare il bucato al sole) per 
		schiarirla ancor di più. Col færo da stiâ (ferro da stiro) si procedeva 
		a stiâ (alla stiratura) stando ben attenti a no strinâ a giancàia
		(non strinare la biancheria). Una volta sciûta (asciugata), a 
		giancàia veniva riposta inte càntie (nei cassetti) con lo 
		spîgo (lavanda) che dava alla biancheria quel caratteristico odore fresco 
		e piacevole. 
		E-into desténde i dràppi a-a bèlla Marinìn gh’é chéito a cànna 
		(antîgo tralalêro) 
		Franco Bampi 
		Tutte le regole di lettura sono esposte nel libretto Grafîa ofiçiâ, 
		il primo della serie Bolezùmme, edito dalla Ses nel febbraio 2009.  |