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Inderê
La Repubblica 30 Luglio 2009

L'intervento sul sito "la Repubblica"

Lezioni di dialetto?

Sì, torniamo pure al Regno di Sardegna

Vittorio Coletti

La mia replica

Siccome nel nostro paese l'unica cosa da prendere sul serio è la scemenza, ipotizziamo che i futuri professori della Liguria siano obbligati a superare un test di competenza dialettale. Scritto o orale? Se scritto, in quale grafia? E poi, in quale dialetto? Quello della maggioranza dei liguri dialettofoni, cioè il genovese? E gli imperiesi che ne parlano uno diverso? Uno di Pieve di Teco potrebbe insegnare in Liguria o solo in valle Arroscia?

Come tutte le cialtronate, anche questa viene fuori da una serie di equivoci involontariamente favoriti da gente seria, da sinceri amanti della propria terra. Il primo equivoco è che il dialetto sia chiamato lingua. Il dialetto è certo una lingua dal punto di vista grammaticale, ma non lo è dal punto di vista funzionale. Una lingua è tale quando in essa si possono fare tutti i discorsi della cultura di un paese. Chiedete a uno studente di usare il dialetto rispondendo a domande di algebra o pretendete dal medico che vi faccia la diagnosi in dialetto. Il secondo equivoco è che esista il dialetto di una regione, mentre in ogni regione ce ne sono molti, a volte assai diversi, perché il dialetto è per principio frammentato e differente da una località all'altra.

Senza contare che, comunque, non è giusto, perché il bergamasco lo può conoscere solo un nativo, ma il toscano lo sanno più o meno tutti e così, dopo Camilleri, anche il siciliano. Allora quelli di Bergamo possono andare a insegnare in Toscana o a Palermo e i napoletani non possono andare a farlo a Brescia?

In realtà, la competenza dialettale (di per sé non inutile) non serve più nella scuola italiana. Semmai servirebbe la conoscenza delle lingue slave o dell'arabo. Non credo che ci siano ancora famiglie in Italia solo dialettofone e, se ci fossero, proporrei di affidarne i figli ai servizi sociali perché li fanno crescere in ambienti culturalmente deprivati. Non voglio dire, con Pavese, che il dialetto è ormai sottostoria. Ma certo oggi il dialetto non coincide con la storia; è un simpatico rifugio nell'album di famiglia, del tutto inadeguato a fronteggiare la moderna vita civile. Anzi, tra poco non lo sarà neppure più l'italiano. Già oggi ci sono domini del sapere, come la fisica o l'informatica, in cui, se non si possiede l'inglese, non si conosce il linguaggio di quelle scienze. Ma, ai professori, i leghisti non chiedono di sapere l'inglese o il cinese o il francese o il russo, ma il ventimigliese o il savonese.

È una battuta, forse; come quella di riservare i posti sul tram ai milanesi doc. Ma c'è poco da ridere. Nel momento in cui tutti gli osservatori notano come non ci sia alcun entusiasmo nel preparare le celebrazioni del 150° dell' Unità d'Italia, l'uscita della Lega svela il vero problema. I dialetti sono impugnati come strumento per un ritorno all'Italia preunitaria, divisa in tanti stati, con passaporto obbligatorio per andare da Milano a Torino, da Roma a Napoli. Come scherzo, quello del dialetto è poco divertente. Ma come indizio di un progetto politico è assai preoccupante. Prepariamoci al peggio, perché forse quelli del sud, stavolta, non ci stanno. La Bosnia non è lontana. Se si torna indietro, comunque, io sono per riportare la Liguria ai tempi del Regno di Sardegna (Piemonte, Liguria, Sardegna). E se qualcuno volesse tornare ancora più indietro, ai tempi della gloriosa Repubblica Ligure, da buon ponentino savoiardo mi arruolerò trai secessionisti liguri che combatteranno per essere annessi ai Savoia, anche se parlano piemontese.

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