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Inderê
Il Secolo XIX Giovedì 7 gennaio 2010

ALL’ABBAZIA DI SAN NICOLÒ DEL BOSCHETTO

Quando è “u san Matè” a raccontare i re Magi

Fedeli da tutti i quartieri della città per partecipare alla messa in genovese celebrata da don Roberto. E l’emozione è palpabile

UNA SCUOLA
PER I RAGAZZI

In effetti
i giovani
non conoscono
il dialetto e anche
questa iniziativa
può servire a
tenerlo vivo.
E da genovese
mi fa piacere

GRAZIELLA LUGANI
una fedele
 

ANGELA POGGI, 96 anni, elegante nel suo cappottino grigio e foulard di seta blu sul capo, ha voluto esserci, arriva da Molassana e ascolta assorta. Del resto, non capita spesso di sentire una Messa in genovese, almeno in parte, perché le regole vanno rispettate, e il dialetto non è contemplato per le funzioni, per quanto riguarda i testi sacri. Sicché, sotto le volte dell’Abbazia di San Nicolò del Boschetto, sopra corso Perrone, ci si deve accontentare di sentire in zeneize l’introduzione alla celebrazione, alle letture e al Vangelo. Oltre alla predica di don Roberto Ghiara, 38 anni, parroco della chiesa Virgo Potens di Sestri, seguito nella “trasferta” da un nutrito gruppo di parrocchiani. «Sono solo un manovale», sorride questo ragazzone che dal pulpito sfoggia lo slang locale con assoluta disinvoltura, e fa un certo effetto sentire che il signore diventa «u Bambin», e i magi che si perdono «i magi che se perdan e poi se ritroevan, cumme tanti zeneizi che han persu a stradda e poi l’han ritruvaa (il genovese è scritto come parlato ndr)». Lamenta, don Roberto che «oua a befana a l’è na festa influensaa dae modde», il vero significato del sei gennaio, la “Pasqueta”, è un altro e non manca la citazione ai santi genovesi, «che parlan in paradisu cun questa bella cocina».

Che riecheggia nella chiesa quando l’“ascoltaci Signore” diventa «sentine Segnu», e prima che la funzione cominci perché è il caso di spiegare che “Pasqueta” vuol dire «pasqua piccinna perché a l’è a primma festa de l’annu e a l’è menu impurtante da festa de Pasqua ch’a vegnia da lì a qualche meise». Ma anche quando, nell’introduzione alle letture, «u prufeta Isaia u cuntempla da luntan a gloria du Segnu», poi si apre la strada a «Paulo l’apostulo de genti» e alla sua lettera agli Efesini, quindi tocca a «Matè che u ne presenta persunaggi misteriusi, i Magi».

Ovvio che nell’Abbazia si respiri un clima particolare, anche perché l’età media è quella di vecchi ragazzi che u zeneize lo sentono parlare sempre meno, tant’è che Franco Bampi, docente universitario e timoniere dell’associazione “A Compagna”, che con l’attrice dialettale Maria Vietz ha curato i testi per l’occasione, tra un po’ andrà a insegnarlo ai maestri delle scuole affinché a loro volta lo spieghino agli alunni che vorranno impararlo. «In effetti i giovani non lo conoscono, e anche questa iniziativa può servire a tenere vivo il dialetto, da genovese mi fa piacere», dice Graziella Lugani, mentre Giorgio Oliveri insiste sul fatto che «l’unica volta che l’hanno fatta qui la messa in genovese è stata sentita veramente».

Apprezza anche il napoletano Michele Cesarano, perché, spiega «io quando torno a casa il dialetto lo parlo, è un patrimonio che va conservato». L’opinione di Giovanni Masi, lo storico del posto, è che «gli interventi in genovese rendono la Messa più animata e più viva». E’ curioso Gianfranco Galiazzo, lui racconta che «è la prima volta che la sento, sono qui perché mia moglie ha fatto il presepe». Ed eccola la presepista ufficiale del Boschetto, Teresa Manganaro, che ammette: «Ho avuto bisogno di qualcuno che traducesse, perché il genovese non lo capisco». Lo capisce bene invece don Alberto Parodi, un’istituzione da queste parti, che però prima della Messa ammonisce: «Il dialetto si può usare nelle fasi esterne al rito, la chiesa non lo prevede, ci vuole rispetto per quanto ci ha ricordato il nostro cardinale Angelo Bagnasco». Don Roberto lo guarda e sorride, come chi si prepara a fare una mezza marachella: non è un segreto che questa storia del genovese, a Bagnasco, non sia piaciuta granché.

EUGENIO AGOSTI
agosti@ilsecoloxix.it

L’abbazia di San Nicolò del Boschetto gremita di fedeli per la messa in genovese (fotoservizio Razzore)

>> PRECEDENTI

IL PRIMO FU
DON CARBONE
AI GIOVI


IL PRIMO a introdurre il genovese in una funzione è stato don Sandro Carbone, rettore del Santuario della Vittoria, ai Giovi. Era il 2003. Poi le occasioni si sono ripetute, nelle chiese genovesi di Santa Zita e Santa Caterina, e nell’Abbazia del Boschetto. Al cardinale Bertone l’idea era piaciuta, al suo successore Angelo Bagnasco molto meno, tant’è che per un paio d’anni l’esperienza non si è ripetuta nel complesso abitato in più riprese nel corso della storia dai monaci che lo lasciarono definitivamente nel 1958, e che dal 1960 passò all’Opera Don Orione che lo gestisce ancora oggi.
Franco Bampi, che ieri è stato protagonista di un paio di letture nel corso della funzione, nel libretto distribuito ai fedeli con i testi in dialetto, spiega che «non c’è una grafia giusta, e non c’è neppure una grafia migliore o peggiore di un’altra. La grafia è una convenzione, può essere solo coerente: per ogni suono un simbolo, per ogni simbolo un suono. Oppure può essere incoerente. E, se tutti siamo d’accordo, la grafia diventa ufficiale». In effetti, non sono mai mancate le dispute sul genovese scritto. «Checchè ne dica il mio amico Vito Elio Petrucci in genovese la “u” si scrive “o”», ha scritto anni fa nella prefazione a una poesia in dialetto Peo Campodonico. Un frammento delle “dispute” di chi della genovesità ha fatto una bandiera, scrivendo libri e commedie, articoli sui giornali che raccontano la vita della città oggi scomparsa.
Il genovese scritto, in generale è materia ostica, anche per chi lo parla fluentemente come don Roberto Ghiara, che ha sostituito nella celebrazione Monsignor Luigi Noli, ammalato.
Prima della Messa si è esibita la Corale Unitre diretta dai maestri Franco e Mario Zambelli, e presentata da Matilde Gazzo.

 

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