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Il Giornale

Sabato 10 giugno 2006


La sovranità locale parte dalla lingua e arriva all’uomo

Gian Maria Bavestrello

Egregio dottor Lussana, vorrei intervenire in merito all’appassionante dibattito apertosi sul tema dell’identità ligure. Lo vorrei fare evitando di ritornare all’uomo di Cro-Magnon o ai reperti dei Balzi rossi.

In tale discussione diventa fondamentale riflettere sul fatto linguistico, il più indicato (sebbene non il solo) a orientare i dibattiti etnologici. Non serve, pertanto, chiamare in causa Adamo ed Eva. Certo qualche passo indietro, visto lo stato in cui versano gli idiomi locali all’interno della società dei consumi e della comunicazione, è necessario farlo. Ma veniamo al dunque.

L’Italia è attraversata, come molti sapranno, da un importante confine linguistico, la linea Massa-Senigallia, che distingue le lingue neo-latine orientali da quelle neo-latine occidentali. Quest’ultime sono le lingue così dette celto-romanze. Tra queste è annoverato il ligure, distinto quindi nettamente dal toscano. Cioè dall’italiano.

Che tutto ciò non abbia dato vita, per diverse ragioni, a una coscienza nazionale e politica è vero, ed è anche la ragione per cui il ligure, o genovese, è oggi non una lingua ufficiale ma un sempre più precario sistema teorico cui ricondurre le diverse varianti dialettali.

Tuttavia, non è corretto scopiazzare il bel libro di Renato Del Ponte per legittimare sotto il profilo dell’unità etnica lo Stato italiano. Questo, oltre ad un’espressione geografica, è infatti un’idea letteraria che, dalle elites, solo recentemente e per effetto di guerre, scolarizzazione pubblica e mezzi di comunicazione si è diffusa al popolo.

Inoltre, come ci sono Stati nazione «multi-nazionali» (Spagna, Francia, Belgio, Gran Bretagna ma la stessa Italia che riconosce proprie «specialità») così ci sono Stati sovrani non nazionali (San Marino ne è un esempio), segno che per essere indipendenti non dovrebbe essere necessario dimostrare (e tali dimostrazioni spesso non appartengono, purtroppo, al campo della pacifica liberaldemocrazia) di essere un Popolo con la P maiuscola, quanto un sistema locale che, attraverso la sovranità, vorrebbe ritrovare le necessarie energie per dar vita a un progetto politico, sociale ed economico diverso da quello che la «sudditanza» a uno Stato più vasto gli consente. La rivendicazione etnica è solo la più «rumorosa» fra le teorie sul diritto all’auto-determinazione, non l’unica.

Bisognerebbe inoltre considerare, alla luce della bio-politica, che la sovranità non è più la sola relazione che vincola individui e comunità a un Potere. Questo concetto si è ormai trasformato una struttura diffusa, reticolare, che non ha più come oggetto tanto il Popolo quanto una realtà «bio-economica», la popolazione, governata attraverso tecniche (le diverse scienze, bio-tecnologiche, umane, etc.) che nelle sfere esecutive e legislative hanno solo il filtro e non la sorgente. Nemmeno si può affermare che la politica orienti sotto il profilo dei valori la tecno-scienza più di quanto non faccia l’economia di mercato, vera protagonista di quest’epoca storica che ha ridotto la società civile e l’ambiente a funzione del mercato stesso.

Se, ad esempio, i dialetti e le diversità culturali stanno morendo è perché non sono utili alle dinamiche di questa società, essendo linguaggi locali, incapaci di prestarsi alla razionalizzazione estrema del lavoro, allo sviluppo tecnologico, alle moderne forme di consumo, ai mezzi di comunicazione di quello che Pasolini definiva «Nuovo Fascismo». Il loro - relativo - «revival» odierno (al pari di quello delle cucine regionali) è semplicemente connesso al fatto che le peculiarità etnolinguistiche sono viste come parte dei momenti di rigenerazione «conviviale» (e umana?) degli uomini occidentali dai ritmi e dalla cultura insostenibile del loro spazio quotidiano.

Non sono più gli Stati nazionali, in sintesi, a decidere in via esclusiva come la nostra vita (bios) di uomini deve essere governata, fatta eccezione per qualche tenue forma di resistenza parlamentare a ciò che viene ancora oggi, nonostante l’evidenza, chiamato progresso.

Tuttavia, il vituperato «localismo», se reinterpretato come «scala umana» in grado di ricondurre agli individui riuniti in società parte del controllo sulla propria esistenza di cittadini, produttori e consumatori, può davvero rappresentare, per virtù connaturate al carattere diretto, partecipativo e semplificatore della piccola dimensione, il grimaldello di una nuova democrazia post-nazionale. Anche i liguri dovrebbero poter prendere parte a questo processo di critica «locale» dei poteri corporativi ed economici, di elaborazione di un’Europa socialmente ed ecologicamente sostenibile.

La sovranità «locale» rappresenta un elemento di questa sfida, la cui posta in gioco è l’uomo stesso.

IL GONFALONE di Genova e il sindaco Giuseppe Pericu

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