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EPOCA MODERNA

Nemmeno da questa grave esperienza la nobiltà genovese trasse ammonimento per sacrificare le gelosie di parte al supremo interesse pubblico; attraverso una fantastica ridda di Dogi, le condizioni politiche della Repubblica caddero in tale disordine e smarrimento che parve ad alcuni partito migliore cedere il governo cittadino ad Amedeo VI. Decisione che sarebbe stata certo meno grave di quella che fu poi presa dal Doge Antoniotto Adorno, il quale preferì cedere il governo al re di Francia. La debolezza della classe politica genovese, che comprometteva le sorti della Repubblica, non si riscontrò fortunatamente nella vita commerciale, che continuò con intensità e con profitto, per merito di nuove «Maone», le quali provvedevano al traffico mercantile marittimo ed alla stessa difesa delle colonie.

Fu merito del governatore francese Boucicault di aver non solo restaurato e mantenuto severamente l'ordine entro la città, ma di aver inoltre data disciplina ed unità ai rapporti finanziari del mondo commerciale genovese, con il riordinamento del Banco di S. Giorgio.

Fin dal 1147 il Comune, per far fronte ai debiti, aveva iniziato il sistema di cedere i suoi proventi in appalto a ricche società commerciali, istituendo una sorta di debito pubblico con le cosiddette «compere». Boucicault, aderendo certo ai consigli di esperti genovesi, riunì queste diverse «compere» in un unico debito consolidato ed amministrato dalla «Società delle compere e dei banchi di S. Giorgio», che si stabilì nell'antico palazzo dei Capitani del Popolo, che Guglielmo Boccanegra aveva fatto costruire nel 1260 da frate Oliviero, costruttore del Molo.

Ma la quiete non durò molto in questa Repubblica, che pareva cercasse la sua prosperità sempre attraverso nuove lotte. Il Comune, con ottimo divisamento, aveva in passato cercato di togliere di mezzo ogni ragione di litigio, acquistando i feudi delle grandi casate ed unificandone i privilegi; ma queste famiglie, temendo le incerte sorti interne, si erano munite di altre terre in cui si rifugiavano quando dovevano fuoruscire, in seguito alla vittoria della parte avversa. Così non mancarono le congiure ed i tentativi di rioccupare la città assoggettata al dominio francese, fino a che nel 1409 il tentativo riuscì, mentre il Boucicault era impegnato in una spedizione contro il Duca di Milano. Genova non ottenne tuttavia la sua indipendenza, perché dai vincitori fu ceduta al Marchese del Monferrato. Di qui nuove congiure ed un succedersi di guerre e di violenti mutamenti nelle magistrature, dovuti spesso ad influenze straniere, ciò che contribuì sempre più ad indebolire la già potente Repubblica ed a spegnerne quel fiero sentimento di indipendenza che le aveva dato vita e splendore.

Dopo una breve guerra, Genova cadde sotto il dominio di Filippo Maria Visconti, ansioso di estendere il suo territorio fino al mare, dal 1421 al 1436 visse una grama vita di lotte interne ed esterne, insofferente dello straniero, ma impotente a darsi l'indipendenza, ottenendo, per il valore dei suoi ammiragli, ancora vittorie navali, che purtroppo servivano a piani altrui.

Era in quel tempo scoppiata una guerra fra Aragonesi ed Angioini ed, essendo i Visconti alleati degli Angioini, l'armata genovese, comandata dall'ammiraglio Assereto, dovette prendere il mare, ove riportò sull'armata aragonese la famosa vittoria di Ponza (1435). I Genovesi fecero allora prigionieri lo stesso re d'Aragona, suo fratello, numerosi principi e prelati aragonesi e siciliani; ma videro frustrato il loro valoroso sacrificio, perché, non solo non ne trassero alcun vantaggio per la loro città, ma furono altresì offesi nel loro orgoglio militare, quando il Visconti, per i mutati suoi fini politici, liberò tutti i prigionieri.

Per questo atto, il popolo di Genova si sollevò, uccise il governatore visconteo e tentò di ridare alla sventurata Repubblica la sua indipendenza, nominando da prima un governo di «Capitani di libertà» e tornando di poi al Dogato, che ridivenne ben presto l'oggetto delle cupidigie delle varie fazioni.

Ricominciò la ridda dei Dogi, l'alterna vicenda delle famiglie e Genova, costretta a sostenere tristi lotte con città della Riviera, col marchesato di Finale, a fare l'inutile sacrificio di cedere le sue colonie al Banco di San Giorgio, per cercar di salvarle, visse allora il suo periodo più calamitoso; mentre alcuni suoi figli (Giovanni Giustiniani e Maurizio Cattaneo) davano esempio dell'antica generosità dei padri, morendo a Costantinopoli in difesa estrema della civiltà cristiana.

Tra il 1450 ed il 1452 era nato a Genova Cristoforo Colombo.

Le vicende storiche intanto precipitarono. Dopo un breve dominio del re di Francia, Genova cadde nelle mani del duca di Milano (1463), che l'amministrò solo per il suo vantaggio, fino a quando, nel 1478, dopo lotte e congiure, le truppe sforzesche furono cacciate dalla città.

Mentre le colonie cadevano in mano del Turco, l'una dopo l'altra, lotte intestine continuarono e di esse continuarono ad approfittare le potenze straniere, che spesso s'impadronivano di Genova, facendosi poi rappresentare da governatori genovesi, poiché le famiglie più in vista sfruttavano le cupidigie straniere, per poter bandire e sostituire le famiglie avverse.

Tutto questo sollevò un'altra volta lo sdegno popolare, che nel 1505 si manifestò in un'aperta ribellione al governatore francese, che fu cacciato e sostituito con un governo cittadino, rappresentato prima dal «tribuno del popolo» e poi dal Doge di parte popolaresca Paolo Da Novi.

Tale intervallo di indipendenza fu tuttavia breve, perché Luigi XII aiutato da alcune famiglie genovesi, si avanzò col suo esercito per occupare la città che, dopo una breve, ma valorosa resistenza, dovette aprire le porte ed arrendersi a discrezione al re di Francia, il quale si vendicò in modo crudele ed iniquo.

A questo episodio di eroica, ma inutile resistenza accenna il Machiavelli nell'ultimo capitolo del «Principe», per dimostrare che l'Italia soggiaceva al dominio straniero, non per mancanza di virtù popolari, ma per mancanza di capi adatti al comando.

Dopo questa occupazione la storia di Genova perde la sua autonomia e si confonde con le alterne vicende, che turbarono l'Europa per la lunga contesa fra la Francia e la Spagna. La Lega Santa non poteva lasciare un così importante porto nelle mani dei nemici e perciò furono ripetuti e tenaci gli attacchi delle navi imperiali, contro Genova, che restò in balia dei due contendenti, fino alla definitiva sconfitta di Francesco I, che Genova scontò con un terribile saccheggio da parte degli Spagnuoli.

Durante queste lotte franco-spagnuole si era segnalato come abilissimo ammiraglio ed astuto politico Andrea Doria, che dopo un lungo tirocinio come «assentista», cioè come appaltatore di navi, a servizio ora dell'una, ora dell'altra potenza, pel cui vantaggio percorse vittorioso i mari d'Italia, strinse un patto con Carlo V, che finalmente liberava Genova da ogni dominazione straniera (1528).

La tormentata città ebbe così, dopo tante lotte intestine, un lungo periodo di pace e di ordine. Il grande ammiraglio, come s'era mostrato valoroso stratega, si rivelò abile legislatore e, ricordando il lungo disordine da cui era stata travagliata la sua città per ambizioni delle famiglie nobili, volle stabilire un ordinamento radicalmente nuovo che evitasse per l'avvenire tale pericolo e stabilisse su tutti sovrana l'autorità dello Stato.

Egli, che era entrato in Genova al grido: «San Giorgio e libertà», non può essere rimproverato di essersi rivelato piuttosto «dominus et patronus» anziché «padre della patria», perché i tempi eran tali che non permettevano certo una libertà nel senso moderno e d'altra parte, se egli non avesse tenuto il governo con ferrea mano, della «libertà» avrebbero approfittato solo le vecchie fazioni, che avrebbero ripreso il loro violento avvicendarsi.

La nobiltà fu riunita tutta in «alberghi», formando il «Liber Civitatis» da cui si dovevan trarre gli amministratori della città e di cui potevan far parte anche quei popolani, che si fossero resi meritevoli di tale inclusione. Gli «alberghi» erano distinti in quelli del «Portico di San Luca» (o nobili antichi) ed in «Portico S. Pietro» (o nobili nuovi). Dagli iscritti si traevano i membri del Consiglio maggiore e quelli del Consiglio minore (sorteggiati fra i 400 del primo), che rappresentavano il potere legislativo, il quale, con una forma di elezione doppia, sceglieva il Doge, assistito da otto governatori. Accanto a questi magistrati v'eran pure i «sindacatori» che dovevan vigilare sulla correttezza degli eletti e sull'osservanza della costituzione. Non mancavano gli Inquisitori di Stato per il servizio di polizia ed un «magistrato degli esuli», per sorvegliare sulle mene dei nobili banditi. Andrea Doria si fece nominare «priore dei sindacatori» a vita, ciò che gli conferì una vera, se pur non manifesta dittatura. Di animo non mite, fu duro con gli avversari: che egli vedeva combattere o per gli stranieri o per scopi personali e non pubblici.

Durante il suo governo, Genova subì una splendida e profonda trasformazione edilizia; si arricchì della più bella strada (Via Aurea ora via Garibaldi), dei più bei palazzi, di magnifiche ville e di chiese grandiose, sotto l'ispirazione di Galeazzo Alessi e con la cooperazione dei più noti artisti d'allora.

Andrea Doria, si era costruita la principesca villa di Fassolo, decorata da valentissimi pittori e ben degna dell'imperatore Carlo V che vi fu ospitato: ma oltre a questa egli possedeva la Casa, sita in piazza S. Matteo al n. 17, che gli era stata data in dono dallo Stato, perché aveva restituito «all'antica libertà la Repubblica da lungo oppressa».

Genova godette di una feconda pace fino alla congiura dei Fieschi (1547); mentre le navi genovesi, comandate prima da Andrea e poi da Giannettino, suo nipote, tennero testa quasi sempre vittoriosamente alle incursioni piratesche e, pur combattendo per la bandiera spagnuola, ottennero che le rive liguri fossero risparmiate dagli orrori, che dovettero subire altre coste italiane. La congiura dei Fieschi fu sanguinosamente repressa e la costituzione fu modificata in modo da escludere dal governo i nobili del «Portico di S. Pietro», sospetti di aver favorito i Fieschi, che agivano per consiglio ed a vantaggio dei Francesi. Anzi, Carlo V fu preoccupato di tale minaccia e, temendo che Andrea Doria, per la grave età, non potesse difendere Genova da una invasione, voleva mandar armati spagnuoli, ma il Doria si oppose e non permise mai che truppe straniere intervenissero in difesa della città.

Morto il valoroso Giannettino nella congiura dei Fieschi, Andrea Doria, ormai vecchio, non poté più condurre le sue spedizioni contro i pirati con la fortuna d'un tempo ed, a stento e più con le armi diplomatiche che con quelle militari, poté conservare alla Repubblica la Corsica, che si era ribellata per incitamento dei Francesi e con l'aiuto dei Turchi.

Il Banco di S. Giorgio, sentendo il peso della costosa amministrazione di questa isola sempre in ribellione contro Genova, ricedette alla Repubblica il governo della Corsica che aveva ricevuto 110 anni prima.

Andrea Doria morì nel 1560, vinto più dal dolore che dagli anni: il Mediterraneo era tornato preda dei pirati barbareschi, mentre le discordie intestine avean ridotto la città in così tristi condizioni da suggerire al Foglietta le amarissime rampogne da lui scritte nel suo «Della Repubblica di Genova», pubblicato nel 1559. Questo acuto giurista e storico voleva richiamare le «indurite menti» ad un vero senso di civismo ed all'amore per «la bella patria», volta ormai ad «acerba ruina»; ma i suoi concittadini non accolsero le parole dettate per il «bene e la felicità pubblica» e risposero punendo l'autore col bando.

Intanto al governo della Repubblica era succeduto Gian Andrea Doria, che, privo delle doti militari e delle virtù politiche del prozio, rinfocolò, con le sue imprudenze, gli odi vecchi e ne accese di nuovi, per reprimere i quali egli non ebbe né forza né autorità.

Scoppiato il lungo malcontento nel 1573, Gian Andrea, nonostante che avesse adunato in città soldati suoi e spagniuoli, non poté mantenere il potere, che fu assunto da una magistratura popolare, perché egli era stato abbandonato pure dalla nobiltà di S. Luca. Il Doria chiamò in aiuto don Giovanni d'Austria, che aveva avuto per maestro il generale genovese G. F. Serra e sbarcò un corpo d'armati a Porto Venere; ma infine dovette accettare la mediazione del Papa, che riunì nel 1576 i rappresentanti delle due parti ad un convegno, presieduto dal cardinale Morone. Fu allora modificata la costituzione, con l'abolizione degli «alberghi» e l'istituzione di nuove magistrature, fra cui il Senato, eletto per mezzo d'un doppio sorteggio (seminario), dando così alla Repubblica quella forma di governo, che restò in vigore fino al secolo XVIII.

Il malcontento non cessò tuttavia neppure con tale riforma e, come per il passato, ne approfittarono quelle potenze straniere, che più avevano interesse ad impadronirsi della riviera ligure, incitando alla sollevazione e suscitando congiure. Più famosa restò quella di Giulio Cesare Vacchero, che cercò di provocare una sommossa per favorire le intenzioni del Duca di Savoia, senza riuscire tuttavia nell'intento, perché, fu scoperto e fu decapitato (1628). Non bastò la severità della condanna, né il provvedimento preso di radere al suolo le case del Vacchero, site in via del Campo, poiché le congiure a favore del Duca di Savoia continuarono e proprio un altro Vacchero fu condannato a morte per lo stesso reato nel 1633.

La Repubblica allora decise di premunirsi contro eventuali sorprese, alzando una nuova cinta di mura fortificate; ma non tralasciando le opere pubbliche, poiché in quel tempo fece costruire il nuovo molo ed aprì nuove strade. Né vennero meno le utili opere di beneficenza, cui i genovesi concorsero generosamente in ogni secolo, col consiglio e con gli averi. Nel secolo precedente il genovese B. Bosco aveva fondato l'Ospedale di Pammatone, in seguito Ettore Vernazza aveva istituito la società di soccorso «del Mandiletto» (così detta, perché i benefattori, soccorrendo, si coprivano il viso con un fazzoletto) ed aveva, pochi anni dopo, fondato l'ospedale degli incurabili; indi lo scolopio Luigi Mallone aveva dato vita all'Albergo dei poveri ed infine, nel 1594, Medea Ghiglini aveva provveduto all'educazione delle giovanette con gli istituti delle Medee.

In quell'epoca (1656) Genova fu colpita dalla più grave epidemia di peste, che abbia mai infestato una città> In 14 mesi perirono più di 74.000 persone e la strage sarebbe stata maggiore senza l'opera coraggiosa del Senato e del Vescovo Durazzo, fondatore del Seminario, il quale guidò personalmente il clero all'assistenza ed alla cura dei colpiti.

A questa calamità si aggiunsero altre congiure e lotte intestine e, quando non erano stati dimenticati ancora i danni della pestilenza, sopravvenne il prepotente ed ingiustificato intervento di Luigi XIV nelle cose interne e nei commerci di Genova, cui voleva imporre la sua volontà. La Repubblica si rifiutò fieramente di accondiscendere a pretese, che offendevano il suo diritto sovrano e sostenne un lungo bombardamento dell'armata francese, che rovinò molti edifici cittadini; ma infine, spossata ed affamata, dovette cedere per evitare nuovi ed inutili sacrifici (1684).

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