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Il Giornale Mercoledì 18 agosto 2010

Appello

«L'importanza di salvaguardare la lingua dei padri»

di Franco Bampi *

Caro Massimiliano, leggo, nel tuo «commento» di domenica 14 agosto, che torni su un punto che ti è caro: l'identità delle comunità. E sai che il tema è caro anche a me.

Tu parli di due comunità, quella di Carloforte e di Calasetta, che insegnano al mondo (e non credo di esagerare) come si possa mantenere viva la propria tradizione storico culturale ed essere, nel contempo, uomini e donne del ventunesimo secolo. La chiave di volta di questo loro insegnamento è l'uso costante, nella comunità, della lingua dei padri: il tabarkino, che è il genovese di Pegli del Settecento, arricchito da qualche «sardismo» (babbu, per padre, o Càgge, per Cagliari).

Per questo non si addice a loro il chiaro monito che il poeta siciliano Ignazio Buttitta ci ha consegnato nella sua celebre poesia «Lingua e dialettu»: «Un populu / diventa poviru e servu / quannu ci arribbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri».

Ecco perché, come tu sottolinei, l'identità di una comunità non è disgiunta dalla lingua di quella comunità. La lingua e l'inflessione (quello che noi genovesi chiamiamo, con parola latina, còcina) è il nostro primo e importante biglietto da visita con i «foresti»: quando mi dicono che «si sente» che sono genovese, beh, io mi inorgoglisco... Potenza della lingua! Proprio per questo non c'è una parlata meglio di un'altra: io, che so parlare e parlo il genovese di Genova centro, amo la parlata tabarkina, di Sanremo o della Fontanabuona, per citarne alcune, che pure non so usare.

Ognuno deve parlare la lingua che parlavano i suoi padri. Ma deve farlo!

Vedi, caro Massimiliano, qui a Genova, e voglio proprio parlare di Genova città, ci sono decine di migliaia di persone che sanno parlare il genovese, spesso quello del loro quartiere: il problema è che quasi sempre si astengono dal farlo!

Ecco perché ho deciso di mettermi in gioco e di metterci la faccia cantando e suonando, io che cantante e suonatore non sono, i Beatles in genovese.

E questo è il mio appello, l'appello di sempre, scritto e gridato: parliamola questa nostra lingua, questo nostro dialetto, parliamolo tra di noi, coi figli, coi nipoti.

Come era nei tempi andati, la sapienza popolana ritorna ai nonni, oggi depositari di una parlata viva e verace che attende solo di essere ripresa dai giovani nipoti: un tesoro ancora disponibile per la gioventù del ventunesimo secolo che voglia riappropriarsi delle proprie radici per non essere «persu pi sempri».

* Presidente de «A Compagna»

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Il Giornale Sabato 14 agosto 2010

Il commento

La ricerca dell'identità

di Massimiliano Lussana

Come al solito, al ritorno delle vacanze, nelle valigie, oltre ai regalini per parenti ed amici, ci si porta dietro taccuini pieni di appunti e idee. E, come al solito, ogni volta che si torna dalla Sardegna, ci si porta tanta invidia. Non è il mare, non solo il mare. Al netto dell’alga tossica che ha accompagnato l’estate di Bagnara e delle scelte di Tursi che hanno trasformato tante zone da spiagge da sogno in città in incubi a cielo aperto, ci sono calette e spiagge liguri che non hanno nulla da invidiare ai mari caraibici della Sardegna.

Eppure. Eppure, c’è un valore aggiunto che noi, a Genova e in Liguria, non abbiamo. Ne parlai già anni fa e bastò un articolo su queste pagine per scatenare un dibattito lungo tre mesi sul tema e sulla disperata ricerca di un senso di appartenenza alla nostra comunità. Si tratta dell’identità. Ci torno a distanza di anni per un doppio motivo: innanzitutto, il fatto di averlo toccato con mano a Carloforte e Calasetta, colonie genovesi e addirittura Comuni aggiunti della Provincia di Genova, con un doppio senso di identità e soprattutto di appartenenza: il primo alla Sardegna, ma il secondo, ancor più forte e radicato, alla comunità degli esuli tabarchini di Pegli che per primi si trasferirono sull’isola di San Pietro, sud ovest della Sardegna, in provincia di Carbonia-Iglesias. Ma anche in provincia di Genova.

Partiamo dalla sardità. Che vale a Carloforte come in ogni angolo dell’isola: a me un posto dove sullo scontrino del supermercato ti indicano la percentuale di prodotti sardi comprati, dove ti ringraziano persino in calce al conto per aver scelto i frutti della loro terra, dove l’acqua minerale più venduta è la «Smeraldina», dove le patatine sono le «Crocchias», dove formaggi e latticini sono «Arborea», dove la birra è «Ichnusa», dove il giornale più venduto, l’«Unione sarda», ha tutti i gadget legati a temi della cultura e della tradizione sarda, mette di buon umore e soprattutto provoca attacchi invidia. Perchè chi ha un’identità, ha un’enorme ricchezza. Ora, non ho sottomano l’articolo che scrissi sul tema quattro anni fa. Ma credo che le parole fossero più o meno le stesse e le marche citate fossero più o meno le stesse. Il che, magari, non è un buon segno per quanto riguarda la mia fantasia, ma certamente è un ottimo segno per la perseveranza nel difendere la propria identità da parte dei sardi. Sia ai vertici - fra gli imprenditori, ad esempio sia alla base, fra i consumatori.

Un miracolo che, se possibile, raddoppia a Carloforte. Perché qui si respira un’identità elevata a potenza: quella sarda rafforzata e, anzi, dominata da quella genovese. Un indizio su tutti: sull’isola di San Pietro (e, in parte, anche su quella di Sant’Antioco), si parla il dialetto. Magari spurio, magari un po’ sporco, magari meticcio, ma comunque dialetto genovese, che è sulla bocca di tutti, persino dei bambini delle scuole. Franco Bampi il papà dello studio del dialetto a Genova, che è riuscito a coinvolgere nell’opera meritoria anche la Regione Liguria - da un lato inorridirebbe sentendo alcune parole storpiate rispetto alla sua versione autorizzata, dall’altro andrebbe in brodo di giuggiole perché penso che il genovese sia parlato dai seimila carlofortini più di quanto lo usino seicentomila genovesi. Comunque, nei prossimi giorni, proveremo a raccontarvi quest’isola di un’isola che è anche e soprattutto un’isola della nostra città e della nostra regione. Con un sogno nel cuore. Non essere qui a riscrivere fra quattro anni un articolo sull’identità perduta. Perché non ce n’è più bisogno.

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