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       [ Lo scenario ]
      [ I personaggi ] 
        
      Cronache e misteri delle giornate che precedettero il 
      sacco della città da parte dell'esercito piemontese comandato da La Marmora 
      La sommossa dell'aprile '49
      Quando Genova insorse in difesa della libertà
      
      
        
          La rivolta scoppiò il 1° 
            aprile, domenica delle 
            Palme, otto giorni dopo 
            la sconfitta di Novara 
            contro gli austriaci 
            che portò all'armistizio 
            di Vignale | 
          
             
            Manifesto antisabaudo affisso 
            a Genova nell'aprile del 1849 | 
          Lo spettro di una 
            seconda occupazione 
            austriaca - dopo quella 
            che nel 1746 produsse 
            il sasso di Balilla - 
            prese ad aleggiare nei 
            circoli democratici | 
         
       
      
      «Mio caro generale, vi ho affidato la faccenda di Genova perché voi siete 
      un uomo coraggioso. Non avreste potuto comportarvi meglio e vi meritate 
      ogni genere di complimenti». Così scriveva, in francese, Vittorio Emanuele 
      II, re di Sardegna da neppure un mese, l'8 aprile 1949, al generale 
      Alfonso La Marmora, ai suoi occhi di monarca un soldato meritevole della 
      più grande riconoscenza: aveva soffocato nel sangue del popolo - ma questo 
      evidentemente non gli importava - la rivolta dei genovesi, ristabilendo 
      l'autorità regia. Che cosa pensasse della città di Mazzini e del suo fiero 
      popolo il futuro Padre della Patria italiana, il re Galantuomo che avrebbe 
      unificato la Penisola grazie alla spada di Garibaldi, lo apprendiamo poche 
      righe oltre. 
      
      Riferendosi alla città ribelle, il re auspica «ch'ella infine impari una 
      volta per tutte ad amare le persone oneste che lavorano per il suo bene, e 
      ad odiare questa vile e infetta razza di canaglia alla quale si è affidata 
      e nella quale, sopprimendo ogni sentimento di fedeltà (sottinteso: alla 
      corona, ndr), e ogni sentimento d'onore, ella ha riposto tutta la sua 
      speranza». 
      
      La città era insorta il 1° aprile, domenica delle Palme, otto giorni dopo 
      la Fatal Novara. La guerra contro l'austriaco oppressore era perduta. 
      Invano il re triste, Carlo Alberto, esponendosi temerariamente sugli 
      spalti, aveva cercato la palla fatale. Dalla disonorevole disfatta il 
      monarca sabaudo uscì fisicamente incolume ma distrutto nello spirito. 
      Abdicò in favore del primogenito, Vittorio Emanuele e si rifugiò in 
      Portogallo, ad Oporto. Non sarebbe sopravvissuto molto all'onta della 
      disfatta, militare e politica. Il 27 marzo 1849, Genova accolse attonita 
      la notizia della sconfitta di Novara e le condizioni dell'Armistizio, 
      siglato a Vignale dal giovane re (aveva appena 30 anni) e dal 
      Feldmaresciallo Radetzky. L'atto prevedeva condizioni giudicate 
      disonorevoli come la permanenza di guarnigioni austriache nel territorio 
      compreso fra il Po, la Sesia e il Ticino, e nella metà della piazza di 
      Alessandria, la cittadella fortificata che sorgeva come un baluardo fra 
      Torino e Genova. Diciottomila fanti e duemila cavalieri di S.M. 
      l'Imperatore d'Austria si insediavano dunque entro i confini piemontesi. 
      Una forza che - ragionarono i genovesi - poteva essere facilmente 
      scagliata contro la loro città come la testa di un enorme martello. 
      
      Lo spettro di una seconda occupazione austriaca - dopo quella che nel 1746 
      produsse il sasso di Balilla - prese ad aleggiare nei circoli democratici 
      di una città ancora fieramente repubblicana. Angelo Brofferio, scrittore 
      piemontese di idee progressiste, scriveva di quei giorni concitati: «Udito 
      il disastro di Novara che tutti giudicarono tradimento, udite le 
      condizioni dell'armistizio, che a tutti parvero disonorevoli, Genova alzò 
      il capo fieramente e non volle sottoporsi né al Croato che invadeva, né al 
      Ministero che pareva essere in buona intelligenza con l'invasore». 
      "Tradimento!": l'orribile parola volava di bocca in bocca. In quella 
      disonorevole capitolazione, nella rinuncia alla guerra all'Austria, molti 
      scorsero appunto la mano fedifraga di quanti, a Torino, anteponevano gli 
      interessi dinastici dei Savoia e la conservazione dei privilegi 
      aristocratici, alla sacra causa della riunificazione nazionale. La tesi 
      dei repubblicani all'ingrosso era proprio questa. Pur di non perdere i 
      suoi privilegi feudali, la nobiltà sabauda alla ripresa della guerra aveva 
      intrattenuto rapporti con Radeztsy, informandolo dei movimenti delle 
      truppe regie, al punto che l'odiato Feldmaresciallo poté inviare spie 
      nelle fortezze tenute dai piemontesi e quindi sbaragliare in battaglia, 
      disponendo di appena 50mila uomini, l'esercito sardo che ne contava il 
      doppio. 
      
      Questa tesi viene ripresa anche nel volume conosciuto come l'Anonimo di 
      Marsiglia, una puntigliosa e documentata ricostruzione dell'assedio e del 
      sacco di Genova, pubblicata nella città francese nel novembre 1849, 
      scritta da un testimone oculare dei fatti e attribuita, volta a volta, a 
      Emanuele Celesia, al deputato Costantino Reta e - con maggiore 
      verosimiglianza - a Niccolò Accame, segretario del Governo provvisorio di 
      Genova che dopo la repressione della rivolta si era rifugiato proprio a 
      Marsiglia. 
      
      Le campane suonavano a stormo, la sera del 27 marzo 1849, il popolo 
      correva alle armi, pronto a battersi a difesa della città e della propria 
      libertà. Non immaginava ancora che di fronte si sarebbe trovato non le 
      aquile imperiali di Vienna ma le baionette e i fucili dei bersaglieri del 
      "suo" re. Eppure già sette mesi avanti, il ministro degli Interni, 
      Pinelli, 
      aveva pronunciato una frase che era una dichiarazione di intenti e insieme 
      un programma: «Credo che uno scoppio di questi malumori sia quasi 
      desiderabile». Nello stesso periodo veniva inviato a Genova, come nuovo 
      governatore, il generale Giacomo Durando, già munito, si vociferava, di un 
      decreto di stato di assedio in bianco. A Torino la reazione stava già 
      predisponendo le sue pedine. 
      
      All'inizio della primavera del 1849, il comandante della Divisione 
      Militare di Genova, il generale Giacomo De Asarta, nativo di Sampierdarena, 
      preoccupato dai primi sommovimenti popolari, aveva spedito corrieri a 
      Torino invocando l'intervento delle truppe di La Marmora. Intercettato uno 
      dei messaggeri, l'appello divenne di dominio pubblico. Dunque le truppe 
      piemontesi che andavano ammassandosi entro le mura e nei forti che 
      cingevano la città non s'apprestavano alla difesa di Genova 
      dall'Austriaco, ma erano venute a strangolarne la libertà. La reazione 
      popolare arrivò fulminea. 
      
      Sequestrato l'Intendente generale, Farcito, lo si costrinse ad ordinare la 
      consegna dei forti Sperone e Begato ai popolani armati, tra i quali 
      spiccavano 600 facchini, i "camalli" del porto. La presenza nel governo di 
      Torino di Dalaunay e Pinelli «erede dei due nefandi armistizi - 
      scrive l'Anonimo - toglieva purtroppo ogni speranza delle libertà 
      cittadine». Era una profezia destinata tristemente ad avverarsi. 
      
      Il giorno 29, il Municipio, riunito in permanenza, inviò a Torino due 
      emissari con la richiesta di trasferire il Parlamento a Genova. Il 
      generale Giuseppe Avezzana, comandante della Guardia Civica, con un editto 
      annunciò di non riconoscere l'Armistizio con l'Austria. Il significato 
      sottinteso di quella mossa era: uniamoci a difesa dell'indipendenza del 
      Regno. Ma a Torino l'interpretarono come l'annuncio di un colpo di Stato 
      di matrice repubblicana. In seguito, per giustificare l'impiego delle 
      truppe contro la città, i commentatori filopiemontesi inventarono una 
      congiura repubblicana che nemmeno si profilò all'orizzonte. 
      
      «Niuno forse tra noi che non avesse fior di senno pensava a 
      segregare Genova dal Piemonte e costituirsi un proprio governo - 
      scrive l'Anonimo di Marsiglia che certamente visse dall'interno quei 
      giorni drammatici - La bandiera della Liguria fu sempre l'unificazione 
      non di smembramento delle province italiane». Nel frattempo il generale De Asarta aveva trasferito 
      il proprio quartier generale allo Spirito Santo, proprio dove aveva 
      dislocato le sue truppe, un secolo avanti, l'odiatissimo generale Botta 
      Adorno, comandante del presidio austriaco occupante la città. Il console 
      inglese fece affiggere un manifesto nel quale - in caso di insurrezione - 
      minacciava Genova di bombardamento da parte di una nave di Sua Maestà 
      ancorata in porto. 
      
      A mezzanotte la protesta sembrò placarsi ma all'alba del 30 marzo il 
      popolo insorse: studenti, facchini, operai, garzoni, artigiani accorsero 
      ad armarsi, persino preti e frati (tra i quali il celebre e venerato 
      padre 
      Santo, che se ne discolperà adducendo la ragione di esservi stato 
      costretto) risposero all'appello per l'insurrezione. Il Municipio esitava 
      nel prendere decisioni e l'Anonimo precisa che si trattò soltanto di 
      «alcuni che nell'ora del rischio, sceveratisi dalle file del popolo, si 
      rintanarono nelle sale del Municipio e ivi intesero ad organizzare la 
      reazione». Altri invece si unirono ai popolani mentre andò a vuoto il 
      tentativo di arrestare il generale Avezzana, salvato da un manipolo di 
      artiglieri. 
      
      Il generale De Asarta, barricato all'Arsenale e protetto dai cannoni della 
      guarnigione piemontese, aveva visto la sua famiglia imprigionata e 
      trattenuta - assieme al generale Ferretti, imparentato con 
      Pio IX - in 
      ostaggio a palazzo Tursi. Gli venne comunicato che avrebbe ricevuto la 
      testa del figlio, al primo colpo di cannone sparato sulla città. Le truppe 
      di stanza in città in parte si rifugiarono allo Spirito Santo, in parte 
      fraternizzarono con gli insorti. 
      
      Il 31 una Commissione di salute pubblica chiese al Consiglio Municipale la 
      nomina di un Triumvirato, nelle persone del generale Avezzana, 
      dell'avvocato David Morchio e del deputato Costantino Reta. Anima e 
      braccio della rivolta era un avvocato genovese, fervente repubblicano: 
      Didaco Pellegrini, destinato a morire in esilio volontario a Costantinopoli, nel 1870, avendo rifiutato l'indulto concesso nel 1856 ai 
      capi dell'insurrezione genovese. 
      
      A sera un tumulto di popolo mandò in frantumi, nell'esultanza generale, 
      l'Arco che univa Palazzo Ducale alla chiesa di Sant'Ambrogio, covo degli 
      aborriti Gesuiti. Il generale Avezzana, ormai assurto a capo militare 
      dell'insurrezione, frattanto aveva ispezionato le barricate erette in 
      città. Lo accompagnava, riferiranno a distanza di mezzo secolo alcuni 
      testimoni oculari, un giovane biondo, dall'aria assorta: Goffredo Mameli. 
      Era accorso nella sua città e vi si trattenne fino alla avvenuta 
      repressione militare per poi rientrare a Roma, dove cadrà da prode. 
      Vennero alzati i ponti levatoi, un'incursione di soldati fu respinta alla 
      porta Pila, mentre due grossi cannoni furono collocati all'ingresso di 
      palazzo Tursi, per sventare eventuali colpi di mano del De Asarta. 
      
      Il giorno appresso, 1° aprile, la Guardia Nazionale, mischiata ai popolani 
      in armi, sfondò le porte della Darsena, facendo causa comune con i marinai 
      e i soldati colà rinchiusi, nel tripudio degli evviva e dei colpi di 
      schioppo sparati in aria. L'Arsenale fornì abbondanti fucili e munizioni 
      agli insorti. Illudendosi di aver guadagnato la fraterna amicizia dei 
      soldati, costoro si presentarono festanti al cospetto dello Spirito Santo. 
      Incoraggiati dai gesti amichevoli di alcuni ufficiali sugli spalti e da 
      teli di candido lino esposti alle mura, il popolo in armi si avvicinò al 
      presidio, accolto all'improvviso da un terribile fuoco di mitraglia che 
      aprì larghi vuoti tra la gente. 
      
      A sparare furono i Carabinieri e le riserve del Reggimento Guardie, dai 
      balconi dell'Annona. Lo scontro si accese fortissimo, condotto con 
      coraggio dal generale Avezzana in persona. Egli riuscì a far occupare le 
      alture dirimpetto all'Arsenale, l'Acquaverde e il campanile di San 
      Giovanni di Prè. Da via Balbi un cannone cominciò a prendere d'infilata il 
      nemico. Durò tre ore il combattimento fierissimo, con gravi perdite su 
      entrambi i fronti, si contarono 23 morti e 19 feriti tra i cittadini 
      inizialmente caduti nel tranello e rimasti a corto di munizioni. Il 
      colonnello Morosso, delle Guardie, odiatissimo dai genovesi, cadde 
      trafitto al cuore da una palla. Lo scontro si riaccese, rinfocolato 
      dall'irrompere di altri popolani armati, fra i quali donne, giovinetti, 
      anziani e persino preti e frati, che si slanciarono all'assalto, 
      disselciando le strade e innalzando barricate. In breve gli otto cannoni 
      presenti alla Darsena furono catturati, trascinati sulla collina di 
      Pietraminuta e rivolti contro la truppa. 
      
      All'alba il De Asarta dette l'ordine ai suoi di ripiegare in fretta e 
      furia e in seguito dovette addirittura chiedere la Capitolazione che 
      Avezzana concesse: 5.600 militari piemontesi sgomberarono il presidio, 
      seguiti da un grosso corpo di Carabinieri reali. Nelle condizioni di resa 
      si precisò che il governo di Genova si sarebbe adoperato per impedire che 
      la Divisione Lombarda, in marcia verso la città, si scontrasse con i 
      soldati piemontesi in ritirata. A sua volta - si legge nella Capitolazione 
      - «il De Asarta si impegna a impiegare i suoi buoni uffici affinché nessun 
      corpo d'armata, sia del generale La Marmora che di qualunque altro 
      Comandante del Governo sardo, marci alla volta di Genova, ma abbia 
      ugualmente che il suo a ritirarsi oltre l'Appennino». Al punto 6 della 
      Capitolazione si legge: «Genova rimarrà inalterabilmente unita al 
      Piemonte». Eppure La Marmora era già in marcia e si appressava alla 
      Superba. 
      
      Annusata l'aria, il 2 aprile, il Triumvirato si tramutò in Governo 
      Provvisorio. Si inviarono messaggeri ai Lombardi perché si affrettassero, 
      furono spediti quattro piroscafi a Chiavari per facilitare il loro arrivo 
      in città. Lorenzo Pareto, illustre esponente dell'aristocrazia 
      progressista, veniva nominato Ispettore generale delle fortificazioni di 
      Genova. «Non si ebbe fra tanti un solo proclama dal cui tenore 
      trapelasse il concetto di voler spodestare i Reali di Savoia e crearsi un 
      nuovo governo - scrive l'Anonimo - Questa città generosa fece 
      sull'altare della Patria olocausto di ogni privato rancore». 
      
      Esploratori a cavallo distaccati sulla strada di Novi tornarono 
      annunciando quel che già molti temevano. Le avanguardie di La Marmora - 
      non gli Ulani austriaci - si stavano avvicinando a Genova. Trentamila 
      soldati formavano il corpo di spedizione. Reta inviò al generale un 
      messaggio, implorandolo di non volgere le armi verso i fratelli ma semmai 
      di usarle contro l'austriaco invasore. Per tutta risposta La Marmora fece 
      imprigionare il messo, minacciandolo di fucilazione. Giunto in Val 
      Polcevera, concesse un breve riposo ai soldati, in attesa di sferrare 
      l'attacco. «Ma i più fieri avversari del popolo non erano gli assalitori: 
      che molti come si disse, e di peggiore tempra erano i nemici domestici. - 
      scrive l'Anonimo - Le loro arti subdole, i loro inganni, non il valore 
      piemontese, spianarono al La Marmora l'ingresso in città». Vedremo come. 
      
      (1 - Continua) 
      Leggi la seconda parte 
      RENZO PARODI 
      
        
      Il Castelletto nel 1848
      Costruito dopo l'annessione al Regno di Sardegna, per i genovesi era il simbolo
      del dominio piemontese 
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