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A che cosa serve un monumento?

(Appunti di Franco Bampi)

A che cosa serve un monumento? E un’opera d’arte? Non certo a soddisfare funzioni primarie dell’uomo e della società: non leva la fame, non dà ricovero, non produce posti di lavoro (a meno di non fabbricare monumenti in quantità industriale dopo aver trovato un mecenate finanziatore). Siccome costa, il denaro utilizzato per la sua realizzazione viene sottratto ad altri impieghi. Tuttavia, da sempre, il monumento rappresenta quella testimonianza concreta e durevole di esaltazione, a onore o a ricordo di persone o di fatti, spesso realizzato come opera di scultura o di architettura. Anzi, il sentimento associato a un monumento è di tale forza che spesso un’opera d’arte di pregio o rappresentativa di particolari valori culturali o morali è definita essa stessa “monumento”.

Dalla Storia apprendiamo che chi deteneva il potere ha ordinato monumenti che celebrassero le sue gesta o il suo splendore e che testimoniassero la grandezza raggiunta sfidando l’oblio del tempo. Per questo, quando avveniva un sovvertimento del regime, sovente il nuovo potente eliminava o modificava i monumenti dell’antagonista sconfitto per cancellarne la presenza e impedirne la memoria. Quando, alla fine del XVI secolo, la nobiltà genovese, arricchita dai traffici economici e finanziari incrementati dalla scoperta del Nuovo Mondo, volle dare un segno esteriore della sua splendida grandezza fece costruire Strada Nuova (poi Aurea e oggi Via Garibaldi). La bellezza di quella architettura stupì persino il pittore fiammingo Pietro Paolo Rubens che volle immortalare quei stupendi palazzi con il tratto sicuro della sua penna. Più tardi, nel giugno 1797, le idee giacobine stordirono alcuni genovesi: per la prima volta nella sua storia millenaria Genova fu offesa dagli stessi genovesi: in piazza Acquaverde si eresse un “Albero della Libertà” e si diedero alle fiamme la portantina del Doge, la bussola del Seminario (che serviva per la designazione a sorte del Doge) e il Libro d’Oro della Nobiltà. Vennero inoltre demolite le grandi statue di Andrea e Gian Andrea Doria poste sui due piedistalli di Palazzo Ducale nell’attuale Piazza Matteotti.

Nonostante tutto, però, moltissimi sono i monumenti giunti fino a noi. Come hanno potuto farlo? A mio avviso per due concomitanti motivi. In primo luogo, più o meno fino alla Seconda Guerra Mondiale, la classe di governo era tale per nascita e, quando vi era una componente elettiva (come, ad es., nelle monarchie costituzionali), potevano essere elette solo persone appartenenti a precise categorie sociali. Spesso, inoltre, la nobiltà e la borghesia più ricca finanziavano di tasca loro alcuni interventi inderogabili. Così fecero, ad es., Raffaele De Ferrari per la diga foranea e Alfredo D’Andrade per i restauri di Palazzo San Giorgio, di Porta Soprana e degli altri che effettuò a Genova. Di fatto, il patrimonio pubblico era quasi di proprietà di chi deteneva il potere che quindi aveva tutto l’interesse a conservarlo in buono stato. D’altra parte il popolo minuto sentiva come un valore da difendere il rispetto della propria città: mai avrebbe pensato di infierire su un monumento posto a decoro di una piazza o di un palazzo. Oggi, purtroppo, entrambe queste due condizioni sono venute a mancare. Appena il famoso “Barchî de Pontexello” fu collocato in Campetto (toponimo che non prevede la specificazione “piazza”) la mano di un vandalo vi tracciò la A degli anarchici; la facciata di Palazzo Ducale su Piazza De Ferrari fu imbrattata con macchie di colore rosso. La mancanza di valori e di quel senso di rispetto per ciò che è lasciato alla pubblica attenzione sono concause che hanno contribuito a far agire quei miseri devastatori.

Anche di recente, e con l’incitamento delle istituzioni di sinistra della città, si è voluto vilipendere i nostri monumenti. I tre monumenti equestri presenti a Genova (e sono solo tre e rappresentano Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi e Manuel Belgrano) sono stati oltraggiati con una irriverente illuminazione che li espone al ludibrio e alla derisione di chi li osserva. Non dobbiamo quindi meravigliarci se a Roma le folle orgiastiche sollecitate a raggiungere la capitale dal sinistro Rutelli abbiamo compiuto atti di vandalismo proprio sui monumenti. E tutto questo, si badi, è assolutamente coerente con le pratiche irriverenti e devastatrici che i comunisti hanno sempre riservato ai monumenti e ai palazzi che hanno trovato sulle loro terre ben sapendo che il lordare monumenti e palazzi serve a privarli del significato simbolico che essi evocano.

Se non ritroviamo il rispetto dei nostri simboli e non siamo in grado di difenderli strenuamente perderemo non solo la memoria della nostra storia, ma la ragione stessa di sentirci popolo e comunità. A Genova, nella sagra dell’effimero e dell’improvvisazione, così bene impersonata dal sindaco Pericu, abbiamo ascoltato che la Lanterna andrebbe rimossa da simbolo di Genova, che il Museo Navale di Villa Doria va tolto da Pegli, e che si rilancerà il centro storico creando nuove attrazioni sul mare.

Quando due giovani architetti, Renzo Piano e Richard Rogers vinsero la gara internazionale per costruire quello che sarà il Centre Culturel Georges Pompidou, ovvero il celeberrimo Beaubourg, il presidente Pompidou disse loro: “Siete coscienti che questo edificio durerà 500 anni?” Genova, devastata dalle costruzioni di San Benigno che hanno fatto scomparire il quartiere della Coscia, di San Biagio, dagli scempi collinari, dalla demolizione di Via madre di Dio, da una metropolitana in perenne costruzione, da un incredibile sottopasso e, non ultimo, dalla sbagliatissima scelta circa l’utilizzo dell’area Fiumara, Genova, dicevo, quando troverà un amministratore capace di dire quello che disse Pompidou? Io dico: mai, finché ci sarà la sinistra al potere.

Genova, 5 gennaio 2000

Apparso sul settimanale Arcobaleno di Lunedì 10 gennaio 2000

 

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