Il boom dei centri di telefonia
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Il Secolo XIX Mercoledì 25 aprile 2001
Il caso

Il boom dei centri di telefonia
in pochi mesi hanno invaso i vicoli

Si chiamano "call center", sono centri dove si può chiamare all'estero a tariffe prestabilite e concorrenziali. Nati come funghi per rispondere alla richiesta di un numero crescente di immigrati stranieri, in alcune vie del centro storico hanno soppiantato le botteghe tradizionali, affiancandosi e superando per numero le altre attività rivolte agli stranieri: le lavanderie a gettone e le macellerie islamiche.

Sarebbero poco meno di duecento su tutto il territorio genovese, secondo un censimento ancora in corso di compilazione, eseguito dall'Ufficio prevenzione generale della questura. Una ventina sono concentrati nei pochi metri dei vicoli tra via Pré, via del Campo e la Maddalena. «Dove quel senegalese ha poi aperto il suo "call center" c'era una torrefazione di caffè - racconta Diego, 41 anni, pescivendolo - ma un paio di anni fa il titolare aveva ceduto tutto e se n'era andato, come tanti altri». Altrove hanno chiuso i battenti una sartoria, un negozio di oggettistica. I centri di telefonia li hanno rimpiazzati in pochi mesi.

Il boom è iniziato un paio d'anni fa e non è ancora finito. I primi negozi sono nati senza regole approfittando di un vuoto legislativo, inevitabile per un settore completamente nuovo. Quali regolamenti applicare? La questura, in un primo tempo, si era rifatta a un regio decreto dei tempi del fascismo che regola le "intermediazioni d'affari". Poi sono arrivate le interpretazioni, i regolamenti, la competenza è passata al Comune. Oggi per aprire un centro bastano una autorizzazione del ministero delle Poste e telecomunicazioni, l'iscrizione alla camera di commercio e una partita Iva. Di fatto sono solo le leggi del mercato a regolare, si fa per dire, il settore.

Può succedere così quello che succede in via del Campo, dove due call center sono nati uno di fronte all'altro. Uno gestito da un napoletano («Da venticinque anni commerciante a Pre»), l'altro da un immigrato egiziano che lavora all'Ist e si fa aiutare dalla moglie per la sua seconda attività.

«Sono stato commesso in un negozio di arredamento, poi barista - racconta Angelo De Santis, 41 anni - da un paio d'anni ho aperto questo centro. Qualcuno dice che siamo noi a portare gli stranieri, ma non è vero: il "call center" è una risposta alla domanda che viene dalla gente, se i vicoli oggi sono abitati in massima parte da extracomunitari, è logico che altri affari vadano male e i nostri vadano bene. Ma c'è tanta concorrenza e i prezzi si abbassano sempre. Io sono uno dei pochi italiani che si occupa di queste cose, a Genova: lavoro soprattutto con le donne sudamericane, hanno lasciato la famiglia in patria e chiamano il marito o i figli».

Di fronte, in quello che a prima vista può sembrare un altro locale dello stesso centro, ci sono i concorrenti. Amu Aber e sua moglie Elladad, egiziani. Le tariffe sono le stesse, i portoni si guardano. E i clienti sono sempre sudamericani. «Pensavo che sarebbero venuti dei nordafricani - dice la donna - ma mi sbagliavo». Poi, cambiando tono della voce: «Conoscevo quel ragazzo senegalese che è stato ammazzato, una brava persona che mi ha molto aiutato. E adesso ho paura a rimanere qui, da sola».

B. V.
[Bruno Viani]

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