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Il Giornale

Mercoledì 15 marzo 2006


LA NOSTRA È L’UNICA REGIONE CHE LO IGNORA

Riscopriamo il dialetto

La lingua genovese dovrebbe essere insegnata soprattutto dai genitori

Pier Luigi Gardella

Caro dr. Lussana, mi permetta di inserirmi in questa bella discussione sull'identità genovese e ligure che da un po' di giorni sta dibattendosi sul Giornale. Lo faccio affrontando un argomento che, se non mi è sfuggito qualche articolo, non mi pare sia stato ancora trattato in maniera estesa: il dialetto, o meglio la nostra lingua genovese.

Non è mia intenzione, anche perché non ne sarei in grado, parlarne da un punto di vista storico o filologico, o letterario, ma, semplicemente, mi chiedo una sola cosa. Perché i genitori di oggi, ma anche quelli di ieri o dell'altro ieri, i genitori cioè che sono diventati tali nella seconda metà del secolo scorso, si rifiutano di parlare in dialetto ai figli? Sono nato nel '48 ed in famiglia si parlava solo il dialetto. Avevo qualche compagno di scuola che non lo conosceva, ma la grande maggioranza lo parlava comunemente. Poi siamo diventati genitori noi, e, io per primo, non ho insegnato ai miei figli il dialetto. E come me tutti gli altri. Oggi me ne pento, ma allora insegnanti, giornali, sociologi e tuttologi assicuravano che i bambini col dialetto avrebbero avuto seri problemi di comunicazione a scuola, e poi, dicevano, non faceva... fine. Ma questo succedeva solo a Genova e in Liguria, perché, girando per il nostro Paese, tanto al nord, come al sud, ho sempre trovato bambini che parlavano senza problemi il loro dialetto e contemporaneamente sapevano correttamente esprimersi anche in italiano. Da noi no, col risultato che oggi nessuno nella nostra regione parla in dialetto. Mi trovavo l'altra sera in una trattoria di Chiavari e con piacere ho potuto ordinare la cena in dialetto ad una simpatica cameriera che mi si era rivolta chiedendomi «Cöse scià dexidera?». Nella stessa serata un ragazzino extra comunitario di forse dieci anni, mi ha venduto un accendino dicendo mi che era «un marucchin du belin»...

Purtroppo sui luoghi di lavoro, nei ristoranti, nelle assemblee di condominio, il genovese è e le eccezioni come quella di Chiavari sono pochissime. Ed è da ammirare la capacità di chi, come quel ragazzino extra comunitario, vuole invece assimilare la nostra lingua, come pure sono famosissime le espressioni colorite dei meridionali residenti a Genova che cercano di parlare il nostro dialetto, riuscendoci anche simpaticamente. Ma tolti loro, dove possiamo ancora sentire parlare genovese? Da nessuna parte. Anche nel teatro,come nella canzone dialettale, tolte le dovute eccezioni, sentiamo parlare un dialetto finto, artificioso, forzato, e non spontaneo come quello che echeggiava nei carruggi di Genova negli anni cinquanta.

Tutto questo per dire che, se rinunciamo alla nostra lingua, tutti i bei discorsi sull'identità vanno a farsi friggere. Il dialetto deve ritornare a vivere, ma mi raccomando, non sui banchi di scuola dove veramente si imporrebbe ai bambini un'inutile e forse dannosa, forzatura, ma sui posti di lavoro, nei negozi, per strada e soprattutto in famiglia.

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