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Città e genti d'Italia

Herny Aubert

Guy de Maupassant ha detto «che a Genova si prova ciò che si prova a Firenze o meglio ancora a Venezia, cioè l'impressione di una città molto aristocratica caduta in potere del popolo».

La parola «aristocratica» non è, a rigore, giusta, per chi considera che le tre repubbliche non hanno mai avuto aristocrazia nel senso feudale e germanico della parola, cioè una nobiltà militare, provinciale e di castello, orgogliosa e fiera, quale hanno avuto gli stati monarchici, l'impero, la Francia, la Spagna, Milano, Napoli e la Sicilia. I patrizi delle oligarchie italiane abitavano l'interno delle città e non soltanto non sdegnavano tradizionalmente il commercio, ma trafficavano, dirigevano banche, filature, fabbriche d'armi e d'oggetti artistici, oppure erano soldati o sacerdoti.

La loro suprema ambizione era dare dei papi, dei santi, dei condottieri, dei corsari. Prendevano parte attiva alla vita della loro città invece di parteciparvi dall'alto e da lontano come i patrizi del Nord. Fra due affari commerciali, due viaggi redditizi, intrigavano, gareggiavano, rovesciavano i loro governi, si esiliavano l'un l'altro.

All'origine non portavano neppure titolo nobiliare. I titoli nobiliari non esistono, logicamente, che nelle monarchie e soltanto i re hanno l'abitudine di conferirli. Difatti fu sotto la dominazione degli stranieri, signori del Monferrato e di Milano, re di Napoli e di Francia o di Spagna, imperatori tedeschi, che i banchieri e i commercianti genovesi divennero marchesi, duchi, principi.

Si è molto dissertato sulla etimologia del nome Genova, Genua in latino.

Gli uni lo fanno derivare dal plurale di genu (ginocchio, poiché la baia sulla quale è costruita la città ha la forma di un ginocchio): altri lo dicono celta e gli danno il significato di porta, ingresso. Genova sarebbe la porta dell'ltalia. Altri ancora lo fanno derivare da Giano, il primo re d'ltalia, re leggendario, che divenne dio della Pace e che avrebbe fondato Genova molto prima di Roma. L'orgoglio dei genovesi propende per questa lontana origine e da questo illustre patronato.

La cosa sicura è che la città non era, in antico, che un emporium, cioè un mercato e che non aveva nessuna importanza politica. Strabone dice che vi si vendeva miele, bestiame, pelli, vini e olio. Occupava la stessa posizione geografica di oggi, tra il Faro, che data dall'epoca romana, e la collina di Carignano da una parte, il mare e il forte chiamato oggi Castelletto dall'altra. Comprendeva l'oppidum che oggi è il quartiere del Molo, dalle stradine strette, piene di gente, il cuore e la culla della città, che gli stranieri non visitano quasi mai e in cui vi è almeno una cosa bella: la vecchia e singolare chiesa di Santa Maria di Castello, che fu la prima cattedrale di Genova e dove gli amatori di ricordi storici possono trovare cose interessanti; la neapolis, posta dietro l'oppidum, in un avvallamento dove solo i conoscitori e i curiosi intrepidi si azzardano; la statio ovvero la città militare, che divenne in seguito la città residenziale, e finalmente l'emporium, la ragione di essere di tutto il resto, la città attiva, del commercio e dei traffici. Questi due ultimi rioni, che alla nostra epoca si chiamano della Maddalena e di Pré, e che si stendono a destra della cattedrale di San Lorenzo, costituiscono con il molo già nominato la parte più caratteristica di Genova moderna, quella parte in cui si svolse la vita del Medio Evo, quella che la fa assomigliare a Napoli per le stradine intricate e in declivio e per il colore grigio dei suoi tetti di ardesia. In antico Genova non aveva il grande porto di oggi, le larghe gettate, i bacini interni, i magazzini, i capannoni, i moli: nei tempi lontani i genovesi avevano ciò che offriva la natura e gli ingegneri o i costruttori non sapevano ancora piegarla alle loro esigenze. Il mare lambiva le mura della città e la città mancava di spazio per ingrandire: da un lato le onde che si buttavano su di essa, dall'altro le colline sterili che la timidezza degli architetti non osava scalare. Per questa ragione Genova non si ingrandì, dai tempi lontani a quello della sua riunione col regno di Sardegna nel 1815, epoca in cui cominciò a prendere d'assalto la montagna e decise di traversare il Bisagno. In tutti i tempi è stata una città costretta a commerciare per vivere. Non è certo la stretta banda di terra in cui sorge che l'ha nutrita. Difatti Caffaro, mandato all'imperatore Federico Barbarossa, il quale chiedeva ai genovesi contributi in denaro e minacciava di occupare la città e di scacciarne la popolazione come aveva fatto a Milano, poté dire al Cesare tedesco: «Che cosa le può dare la nostra città? Non ha che scogli e mare. Il mare è di tutti e gli scogli non producono niente».

Fu il commercio marittimo a fare la prosperità di Genova, prosperità che si affermò, come quella di Venezia, all'epoca delle Crociate ed andò sempre aumentando fino alla fine del XV secolo. Le galere della repubblica ligure trasportavano in Oriente i soldati di Goffredo di Buglione e stabilirono sulle coste dell'Asia Minore degli uffici che furono le prime fondamenta dell'impero coloniale genovese. I genovesi riuscirono ad estendere il loro dominio su molte isole greche: sulla Crimea, sulle Baleari; poi su Almeria e Tortosa in Spagna; possedettero Smirne, Pera e Galata, i due sobborghi di Costantinopoli, ceduti dall'imperatore Michele Paleologo: si riservarono il commercio esclusivo della capitale greca, del mar Nero e del mar Caspio: batterono i pisani, che disturbavano il loro sviluppo e strapparono loro la Sardegna e la Corsica schiacciandoli nella battaglia della Meloria nel 1284, distrussero i loro porti e ne sospesero le catene ai muri esterni della chiesa di San Donato, una delle chiese più antiche di Genova, così antica e così nera che nessun documento ne tramanda la fondazione; sospesero la catena del porto a quei muri affinché tutti i passanti potessero capire che i genovesi sono implacabili come navigatori. Dopo questo si armarono contro Venezia, tentarono per ben due volte di distruggerla e chiamarono persino in toro aiuto i principi stranieri. Per molti secoli furono il terrore del Mediterraneo.

Le loro ricchezze furono proverbiali, il loro fasto magnifico. I papi, gli imperatori, i re, le città chiedevano denaro ai genovesi ed essi erano i creditori di tutto il mondo conosciuto. La banca di San Giorgio divenne così potente che al suo confronto la banca di Francia e di Inghilterra erano senza importanza.

La Genova del XIV e XV secolo era già ben costruita tanto che Petrarca poteva qualificarla di superba, superba per l'orgoglio ma più ancora per la sua bellezza e per i suoi palazzi.

Il turista ignorante non immagina, quando percorre i vicoli della Maddalena e di Pré, la vecchia Genova. Non immagina che le altissime case, brutte, nere, abitate da gente modesta o occupate da uffici bui, sono nella maggior parte antiche case nobili, palazzi una volta di marmo. Vede, di quando in quando, un portone monumentale, ornato e scolpito, una scala padronale, un cortile spazioso che gli fanno sospettare un passato d'arte e di ricchezza ma non indagherà. Se ha l'abitudine di alzare gli occhi vedrà che molte di quelle case hanno solo due file di finestre sulle facciate, mentre ai nostri giorni ne avrebbero quattro, e non immagina che appartamenti così alti non sono stati certamente costruiti per operai o per uffici, ma non ne riceverà nessuna particolare impressione. Ricchi blasoni ducali, comitali sparsi un po' dappertutto, gli uni interi, gli altri quasi cancellati, colpiranno il suo sguardo, ma neppure questo gli rivelerà un gran che. Dovrà arrivare nelle vicinanze della venerabile chiesa di Santa Maria delle Vigne per vedere una cosa strana: l'intonaco di molte case grattato in più parti, e colonne di marmo, muri di pietra tagliata, portici, messi in luce. Saprà allora che un colto genovese, Gaetano Poggi, il quale studiò la capitale genovese attraverso la storia e l'archeologia, poté concludere che la Genova medioevale era una città ricchissima, lussuosa, che faceva l'ammirazione dell'Europa.

Gaetano Poggi, difatti, provò che le strade principali della vecchia Genova erano bordate da portici, che le strette finestre oggi piene di poveri bucati appesi ad asciugare, erano state ampie vetrate ad ogiva, che gli androni bui erano stati vestiboli colonnati, che le piccole stanze erano la misera riduzione di grandi sale dove una società elegante viveva, che i materiali preziosi del tempo antico erano stati ricoperti da calce e mattoni, che tutto era stato rimpicciolito, disonorato, imbruttito, e portato alla necessità di una popolazione povera.

Ma allora, ci si chiederà, dove erano i poveri all'epoca di tanta prosperità? Probabilmente non ve ne erano. Tutti guadagnavano denaro, quelli che non guadagnavano denaro col commercio oppure non possedevano nulla erano domestici e vivevano di padre in figlio sotto il tetto del padrone. Se nella vecchissima Genova ci furono rioni operai, strade rumorose e povere, fu forse nel rione del Molo, ai piedi del forte dei Sauli, l'illustre famiglia che nei tempi moderni ha fatto costruire la Chiesa di Carignano e il ponte dello stesso nome. Ma non c'è niente di sicuro riguardo a questo...

Tratto da Giuseppe Marcenaro, Viaggio in Liguria, Sagep, Genova 1994, pag. 231-234.

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