Aprile 1849: il Padre Santo
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IN MARGINE AGLI AVVENIMENTI
DELL'INSURREZIONE GENOVESE
DEL 1849:
anche il Padre Santo
fu costretto ad impugnare il fucile

di Nicola Ghiglione

I drammatici avvenimenti che ebbero luogo a Genova dal marzo all'aprile del 1849, e che culminarono nella famosa insurrezione ben tosto repressa, alla maniera forte, dai cannoni e dalle bombe del generale Alfonso La Marmora alla guida dell'esercito piemontese, ebbero più di un riflesso anche nel mondo ecclesiastico genovese che si trovò a dovere ubbidire agli ordini emanati in maniera altrettanto drastica dal Governo provvisorio insurrezionale capeggiato dal generale Giuseppe Avezzana.

Per la storia, è noto come in quel periodo di agitazioni politiche certi ordini religiosi si trovassero nell'occhio del ciclone, e come le minacce di un anticlericalismo, più che mai settario, cercasse ogni mezzo di provocazione.

Dei tanti ordini religiosi, allora fiorenti nella nostra città, solo i cappuccini furono in quel periodo tumultuoso esenti da atti di ostilità e da altre minacce; ciò si faceva risalire, tra l'altro, alla popolarità che essi padri godevano presso ogni classe sociale, e per le grandi prove di dedizione che avevano dato durante le intermittenti terribili pestilenze, e per altre benemerenze ancora.

Il manzoniano frate del popolo, per accostarsi ad un giudizio illustre, veniva contraccambiato da questa specie di benevolenza malgrado la tempesta si andasse addensando anche sui loro chiostri.

Questa volta però, nell'aprile del 1849, la situazione era di eccezionale gravità: infatti Genova si era sollevata non contro lo straniero, ma contro lo Stato piemontese del quale faceva parte, giudicandosi tradita dopo la sconfitta di Novara, e temendo il peggio.

Il governo degli insorti che non aveva del tutto valutato la reale situazione politica, e le forze che avrebbe dovuto fronteggiare, sperando in ipotetici aiuti, con l'evolversi della situazione militare, non certo favorevole, fu costretto a reclutare il maggior numero di uomini validi per inquadrarli nella Guardia Nazionale.

Le sorti sulle barricate si facevano alterne, occorreva sopperire alle perdite di uomini e fare funzionare un certo ordine nelle retrovie e nel resto della città dove imperversava il disordine; per quest'ultima contingenza il clero era il più adatto.

Il clero diocesano aveva infatti avuto da parte del Vicario Capitolare Giuseppe canonico Ferrari la comunicazione di presentarsi in opportuna sede per essere arruolato nella Compagnia del Corpo degli ecclesiastici, come si può leggere nella pronta risposta del 30 Marzo 1849 alla richiesta che in tale senso era stata rivolta dal sindaco della città Antonio Profumo al Vicario Capitolare (bisogna tenere presente che monsignor Ferrari reggeva la diocesi essendo vacante dopo la morte dell'Arcivescovo M. Tadini). Essa suonava così: «Ricevuto il veneratissimo foglio della S. V. Illustrissima del giorno d'ieri coll'ivi unita circolare ai Parroci, preti, chierici sul loro armamento, vengo subito e volentieri e significarle che, stanto l'imperiosità delle circostanze che Ella mi rappresenta, non mi oppongo menomamente all'eccitamento da Lei ad essi comunicato, conché restino i sacerdoti necessari alle chiese per i bisogni spirituali, e gli ecclesiastici formino un Corpo distinto per il servizio all'interno della città sotto sorveglianza dell'Ordinario, come si praticò nell'anno 1746 ai tempi dell'egregio Arcivescovo monsignor Saporiti, lodevolissimo per amore di Patria, e per ecclesiastica disciplina. Per meglio attuare questa importantissima pratica spedirò copia della presente a tutti i parroci di questa città onde sia portata a cognizione di tutti gli ecclesiastici. Um. e dev.mo Giuseppe canonico Ferrari - Vicario Capitolare».

Ci pare, secondo notizie che il clero ottemperasse all'ordinanza e fu ai posti designati il giorno 4 Aprile, una delle giornate più drammatiche quando la lotta ormai infuriava da San Benigno a Piazza Acquaverde, l'attuale zona della Stazione Principe, mentre i bombardamenti d'artiglieria diurni e notturni moltiplicavano i loro duelli sbagliando spesso bersaglio per cui molti proiettili finivano in mare. Le truppe del La Marmora, che si erano già impadronite di alcuni forti della cerchia esterna della città, non sentendosi ancora sicure del successo rendevano più sanguinosa la lotta per la resistenza opposta dagli insorti genovesi sulle barricate.

Il generale Alfonso La Marmora, ben conscio della situazione aveva infatti richiesto imponenti rinforzi che lo avrebbero messo in condizioni di assoluta superiorità per sferrare l'attacco finale; attacco che se avesse avuto luogo poteva provocare una vera e propria strage spostandosi la lotta nel centro della città che sarebbe poi stata chiusa in una morsa mediante l'affluenza di altre truppe piemontesi fresche scese dalla vallata del Bisagno i cui forti in mano agli insorti si erano arresi senza opporre resistenza.

La lotta sulle barricate o «alle barricate» per usare un termine allora in uso che si protrasse oltre il 6 Aprile, culminò con il bombardamento della città che fu deciso dal La Marmora per tagliare corto col protrarsi delle tregue spesso interrotte e porre agli insorti le condizioni definitive di resa; quel bombardamento fu il simbolo centrale e terrificante dell'evento, e come tale sopportato dalla popolazione inerme purtroppo coinvolta in quella lotta fratricida.

Ed è a questo punto che noi ci stacchiamo dalla cronaca nuda dei fatti dolorosi per fare entrare nella vicenda un personaggio singolare, amato dal popolo genovese, e che certo con quell'insurrezione non aveva niente a che fare, e che tuttavia con altri confratelli fu costretto ad imbracciare il fucile, il Padre Santo, che risiedeva nel convento della S. S. Concezione, dove ora sono venerate le sue spoglie.

La notizia anche se notoria, esce per noi fresca e più particolareggiata da un libro edito da tempo che mantiene tuttavia il raro pregio di raccontarci nei suoi retroscena, quanto accadde in quei giorni mediante la documentata testimonianza del Superiore del Convento della S. S. Concezione che ebbe l'ordine scritto da parte del Governo provvisorio di sopperire al bisogno urgente di uomini per rinvigorire le file della Guardia Nazionale data la situazione di estrema gravità che incombeva su Genova tutta.

Quindi anche i frati validi, tra cui il Padre Santo, più uso alla preghiera e alle sue peregrinazioni estenuanti dovette con altri confratelli sobbarcarsi ad una così imprevista missione di ben altro genere.

«A malincuore - si legge nel libro - il Superiore dovette ubbidire per sottrarsi a danni maggiori e a mali peggiori. Circa quaranta religiosi, tra i quali anche il Padre Santo, passarono dal chiostro alla caserma aggregati alla Guardia Nazionale.

Ma la repubblica degli insorti malgrado la durissima lotta che sostenne ebbe giorni brevi.

Il 9 Aprile il generale Alfonso La Marmora faceva sfilare vittoriosi i suoi soldati per la città che lacrimava i suoi morti, e che per protesta lasciò deserte le sue vie al passaggio della truppa. Ristabilito l'ordine, ci fu da parte delle autorità governative la ricerca delle responsabilità nei confronti di coloro che erano stati coinvolti nell'insurrezione.

Malgrado la regia amnistia, che essendo molto ampia aveva attenuato certi rigori, non mancò anche al superiore del Convento della S. S. Concezione il richiamo ai fatti in merito al processo criminale che in seguito ad essi venne istruito.

Alla richiesta di giustificazioni della competente autorità il superiore del convento così rispose: «Ill.mo signore. Riscontro sollecitamente la pregiatissima lettera di V. S. ill.ma in data di ieri dicendole:

  1. Gli ordini che ho ricevuto o dalla maggiorità della Guardia Nazionale, o dal sedicente governo provvisorio riguardo all'armamento dei miei religiosi sono tre, che la S. V. Ill.ma troverà compiegati in questo foglio.
    In iscritto non ho ricevuto altro; ma a voce, da individui a me ignoti, ho avuto altre istanze, con minacce di mettere a fuoco il convento, se non avessi mandato i religiosi sotto le armi.
  2. Riguardo al suono delle campane a stormo non ho ricevuto ordine alcuno, e la nostra campana non ha suonato. Tanto notifico alla Signoria Vostra Illustrissima nell'atto che con i sentimenti della più alta considerazione mi sottoscrivo. Genova dal nostro convento della S. S. Concezione questo dì 3 Maggio 1849. Il superiore».

Naturalmente il superiore fu preciso nell'inviare gli ordini in serie di tre che gli erano stati inviati sia dall'aiutante maggiore Emanuele Garbarino, che dal generale Avezzana che non aveva mancato di fare presente al Superiore che i suoi frati sarebbero stati collocati in luoghi onorevoli, ed era pure questo un gesto di simpatia per i cappuccini da non sottovalutare.

Il processo come si sa, non diede luogo ad alcun grave seguito.

Ma in un piccolo libro dedicato alla «Chiesa della S. S. Concenzione e Padre Santo», edito qualche tempo fa, curato dal padre Cassiano da Langasco, tra le essenziali notizie che in squisito stile l'autore riporta, c'è un riferimento a quei fatti lontani dell'Aprile 1849 per quanto riguarda le vittime inumate nell'allora chiesa dei cappuccini che con la sua cripta serviva pure da cimitero per tanti genovesi dei secoli scorsi prima dell'avvento del grande cimitero di Staglieno.

Padre Cassiano descrivendoci certe tombe monumentali, alcune delle quali sono disposte nelle diverse cappelle, ci parla pure di quella povera e senza nome, e malinconicamente, tra l'immensa moltitudine di tante ombre testualmente scrive: «Vana sarebbe la fatica di voler rileggere i nomi degli oltre cento uomini, qui tumulati, dopo essere stati vittime "alle barricate" per gli avvenimenti del 1849».

Fatta eccezione per due combattenti, caduti su opposti fronti, che ebbero l'onore di una lapide scritta, ad imperituro ricordo, come per «l'intrepido cittadino» Luigi Mongiardino, di anni 63, morto tra i cannoni delle barricate di S. Tommaso il 3 Aprile, e per il Cav. Angelo Ceppi, maggiore dei carabinieri, vittima infelice di sicari più che dei rivoltosi, tutti gli altri nomi delle vittime diligentemente trascritti, li abbiamo invece scoperti in un registro di salme inumate nel cimitero della chiesa del convento, dove nel crogiolo di quel lutto cittadino del 1849, abbiamo notato che molte vittime innocenti, come un bambino di pochi giorni e molti ammalati ricoverati all'ospedale di Pammatone bombardato, concorsero con la loro vita a dare quel tributo alla storia che nella sua violenza, come sempre, non conosce il diritto dei deboli e degli umili.

L'Italia crocifissa
L'Italia crocifissa, vignetta pubblicata ne La Strega del 28 marzo 1850. Essa costò al tipografo Dagnino, allora gerente del periodico, mille lire di multa e due mesi di carcere, per oltraggio alla religione, nonostante la difesa di Angelo Brofferio e di Michel Giuseppe Canale. Rappresenta l'Italia sulla croce con Mazzini e Garibaldi oranti ai suoi piedi, mentre Cavour e Rattazzi se ne giocano a dadi le spoglie e La Marmora e Pio IX (a cavallo) la torturano. Sulle croci laterali figurano, quali ladroni, Carlo Alberto e Ferdinando II di Borbone; il giovane imperatore austriaco Francesco Giuseppe fornisce chiodi e martello.

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