L'altra faccia del Risorgimento
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Il Lavoro Sabato 24 novembre 1979

Aprile 1849 a Genova: l'altra faccia del Risorgimento

Uniforme: piemontese
Nome: Attila

Da un libretto totalmente dimenticato la cronaca del testimone oculare della presa di Genova da parte delle truppe di Lamarmora: un feroce bombardamento, razzie, violenze, sadismo. «Oltre agli averi dei cittadini si die' piglio ai vasi sacri e agli arredi dei tempi, si stuprarono vergini, le madri insultavansi. Nel palazzo del principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de' nostri prigionieri gallette inzuppate di sangue...» - Tutto questo solo perché i genovesi, dopo la sconfitta di Carlo Alberto a Novara, avevano cercato di tornare indipendenti

di LUCIANO CAPRILE

Mi è capitato tra le mani un libro singolare ed interessante dal titolo: «Della rivoluzione di Genova nell'aprile del 1849 esposta nelle sue vere sorgenti. Memorie e documenti di un testimone oculare. Italia 1850» Si tratta di una vicenda poco gloriosa della nostra storia risorgimentale che si è cercato sempre di ignorare o minimizzare.

Nella premessa si precisa che «l'autore di queste memorie fu testimonio di fatti e intende narrarli con interesse e senza studio di parte. Niuno finora, ch'ei sappia, cercò indagare il concetto che ingenerò la vigorosa manifestazione di Genova e la verità soffocata pria dal cannone, venne quinci a gara stuprata dalle note officiali e da prezzolati scrittori; poi lo stato d'assedio e le speciali nostre condizioni posero un bavaglio alla bocca di chi con liberi intendimenti di cittadino poteva farsene raccontatore (...) Chi scrive non appartiene a setta, a fazione di sorta (...) scrive perché la protesta di Genova contro l'alleanza coll'Austria verrà registrata con nobile orgoglio nell'istoria d'Italia, quando Italia sarà risorta a dignità di Nazione. Marsiglia, novembre 1849».

Per inquadrare la situazione occorre fare il classico passo indietro. Il 23 marzo, pochi giorni prima del fatti narrati, le truppe piemontesi di Carlo Alberto erano state sconfitte dagli austriaci di Radetzky nei pressi di Novara, la «fatal Novara», non senza ombra di tradimento. Infatti, conoscendo lo spirito repubblicano che animava molti volontari, in particolar modo i lombardi e i liguri, «l'aristocrazia piemontese che abborrìa dalla guerra ordiva un infernale congiura per cui nel bel primo giorno della battaglia difettarono le vettovaglie sulle grasse contrade della Lomellina, fu interrotta ogni corrispondenza fra il Quartier Generale e Torino (...) E qual meraviglia se un esercito di oltre centomila combattenti, venne rotto da cinquantamila Tedeschi?»

Carlo Alberto abdicò e fuggì ad Oporto; le condizioni d'armistizio furono che la città d'Alessandria e il territorio tra il Ticino e il Sesia passassero sotto il dominio austriaco.

Udito il disastro di Novara e le contrattazioni di un armistizio a dir poco disonorevole, Genova decise di non sottostare «né al Croato che invadeva, né al Ministero che pareva essere in buona intelligenza con l'invasore».

Nel frattempo l'Assemblea Nazionale, in comitato segreto, aveva stabilito che tutte le province del Regno dovevano ribellarsi e che la sede del Governo si trasferisse a Genova. Alcuni tra i deputati furono inviati nelle varie zone ad «accendere i popoli», da noi venne Costantino Reta.

Intanto la città era in subbuglio e il generale De Asarta, comandante della divisione militare regia, preoccupato della piega presa dagli eventi, «spediva corrieri al generale Alfonso Lamarmora chiedendo pronti soccorsi di truppe per ristabilire l'ordine in Genova».

Ma gli avvenimenti precipitarono: il Municipio venne sciolto dalla popolazione in rivolta, che costituì un «Comitato di pubblica sicurezza e difesa nelle persone del generale Avezzana, dell'avvocato Daniele Morchio e del deputato Costantino Reta»; il 2 aprile il De Asarta e i soldati regi furono cacciati da Genova e i forti vennero occupati dai cittadini in armi.

Intanto il generale Lamarmora si stava avvicinando alla testa di ingenti truppe. A nulla valse un appello di Costantino Reta per farlo desistere da uno scontro fratricida. La città venne posta in stato d'assedio e, anche con l'aiuto di traditori infiltrati tra i genovesi le milizie reali riuscirono a poco a poco ad occupare diversi forti ed alcune zone strategiche della periferia, nonostante la strenua opposizione di uomini e donne di ogni età e ceto.

«Ma gli orrori di una guerra sleale e veramente fraterna non bastavano ad estinguere nei nostri aggressori la sete di sangue

Trentasei ore
sotto le bombe

Verso il meriggio del dì 5 aprile un fiero bombardamento intronava l'intiera Città». Durava per ben trentasei ore. Le racchette, le bombe, le palle cadeano a diluvio, sfondando i tetti e profondavano morti, incendii e rovine. Il quartier di Portoria ne fu sovra tutti mal concio e, mentre una sola bomba non cadde sovra i signorili palagi, le povere case e i tuguri de' popolani ebbero forate le mura da que' micidiali tormenti. Sedici bombe caddero sovra l'ospitale di Pamattone che, pur come ogni altro stabilimento di carità, aveva inalberato il negro stendale che rende inviolate le mura su cui s'innalza...

In ben oltre trecento cinquanta famiglie di S. Rocco, degli Angioli, di S. Teodoro e di S. Lazzaro, come risulta dai documenti raccolti dal Municipio, infuriò la bestialità delle forsennate milizie che sfondarono gli uscii delle pacifiche case e tutto mandavano a ruba. Oltre agli averi dei cittadini si diè piglio ai vasi sacri ed agli arredi dei tempi - si stuprarono vergini - le madri insultavansi - nel palazzo del Principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de' nostri prigioni gallette inzuppate di sangue, diversi ufficiali animando coll'esempio i soldati...»

Sedici cittadini
presidiano
una fortezza

«Fra tante soldatesche turpezze splende immacolato il nome di Alessio Pasini bersagliere mantovano che intiere famiglie sottrasse alla brutalità de' suoi commilitoni. Per il qual fatto veniva dal Municipio di Genova remunerato del dono di una daga d'onore. E tanto più bella splende questa virtù di soldato italiano quanto più volle offuscar lo splendore il suo capitano Longoni, quello stesso Longoni che, deputato della Liguria (Rapallo), brandì l'armi contro Liguria (...)».

«Intanto non meno sinistre a noi volgeano le sorti in Val Bisagno. Il giorno 6 le compagnie nazionali delle borgate di Marassi, Quezzi e S. Fruttuoso abbandonavano il forte de' Ratti che venne nuovamente occupato da pochi individui spediti per una ricognizione da L. I. capitano del forte S. Martino d'Albaro. Il dì dopo quegli intrepidi difensori, non veggendo giungere il chiesto soccorso ed essendo inutile temerità tentare una nuova difesa, abbandonavano il posto. Esso venne occupato dalle truppe che bivaccavano nella soggetta valle di Bavari. Anche S. Tecla venne, perché deserta, in lor mano. Più fermo contegno ebbero a dimostrare sedici cittadini, che nell'abbandono de' loro commilitoni, vollero soli presidiare la fortezza di Riselieau (Richelieu n.d.r.). Veggendosi questi assaliti, durarono fermi all'attacco finché, fatto vano il loro valore, chiesero una onorevolissima capitolazione e poterono uscire a tamburo battente con ogni onor militare. A riscontro di questo coraggio giovi rammemorare la viltà del M. N. N., comandante il forte di S. Giuliano. Egli portavasi l'8 aprile in compagnia del suo tenente N. N. a parlamentare con Alessandro Lamarmora in Sturla e quindi tornava a' suoi non con onorevoli accordi ma alla testa di 200 piemontesi, obbligando i suoi militi ad uscirne disonorati e senz'armi (...)

Concluso il primo armistizio e fuggiti i promotori dell'insorgimento, tranne Costantino Reta che, dopo essersi adoperato a difesa della città, portavasi a bordo del "Tonnerre", il Municipio cercava di convincere l'Avezzana alla resa da lui rifiutata sdegnosamente in quanto sperava nell'arrivo dei corpi lombardi guidati dal generale Fanti. Ma egli «general Piemontese non avrebbe mai portato l'armi contro il Piemonte» e fece in maniera che non giungessero mai a destinazione».

I bersaglieri
a passo di carica

Dopo l'armistizio del giorno 6 fu concessa l'amnistia ma «da tal beneficio vennero esclusi i Triumviri e nove altri individui, i militari ed i rei di delitti comuni. Pria che Genova ricadesse fra le strette del suo primo governo, volle l'Avezzana porre in salvamento coloro che si credea compromessi, particolarmente molti soldati e quelli delle Real Navi in ispecie che lo seguitarono in Roma, Ultimo di tutti povero egli partiva tanto che il Municipio dovette soccorrerlo con piccola somma (...)».

«Il giorno 9 le truppe entrarono in Città, le precedeano i bersaglieri a passo di carica, seguivano i squadroni di cavalleria, venivano in ultimo i fanti. Trentamila uomini posero "l'ordine" in Genova (...). Entrate le truppe Genova fu la città del martirio. Noi vedemmo un'altra volta dagli antri delle polizie tenebrose sguinzagliati i segugi, vedemmo destituiti senza ombra alcuna d'accusa fra i magistrati Celesia, Montesoro, Balestreri e Grondona (...) Garibaldi, l'eroe di S. Antonio, di Luino e di Roma non poté libero respirar l'aure della sua Genova e tolto di carcere venne duramente respinto dalle sacre terre d'Italia. Cacciati i buoni, la sciabola era arbitra sola dei nostri destini (...)».

«Ed ora, nell'atto di deporre la penna, invochiamo concordia o fratelli che da furie partigiane e da disamori mai non venne salute agli stati! (...) Caldo d'italiane speranze io vi chiamo innanzi all'altar della patria, oppressori ed oppressi. Ivi congiungete le palme e il balsamo del perdono scorra sulle comuni ferite».

Con tale appello alla fratellanza intriso di retorica termina il lungo e incalzante diario dello sconosciuto genovese del 1849 che in seguito si scoprì essere l'avvocato Emanuele Celesia.

Queste pagine ci dicono che il nostro Risorgimento, come tutti i risorgimenti, non fu quell'epopea gloriosa e immacolata che abbiamo imparato sui banchi di scuola: combatterono e morirono per la causa eroi e uomini di fede ma agirono e prosperarono anche traditori, profittatori e doppiogiochisti; non furono vissute solo le giornale gloriose di Custoza e di Calalafimi ma anche quelle buie di Genova e di Bronte. Per questo la gente deve sapere i rovesci delle medaglie, per potersi riconoscere e confrontare non con semidei mitici od irraggiungibili ma con uomini che, col bene e col male, hanno «fatto» questa Italia che pur ci appartiene. Solo con la conoscenza si può capire il presente e preparare un futuro possibilmente migliore, anche con la conoscenza di una scomoda verità che dopo centotrent'anni ci chiama dalle pagine di un libro allora anonimo, oggi dimenticato.

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