| Aprile 1849 a Genova: l'altra faccia del 
      Risorgimento Uniforme: piemonteseNome: Attila
Da un libretto totalmente dimenticato la cronaca del testimone 
      oculare della presa di Genova da parte delle truppe di Lamarmora: un feroce 
      bombardamento, razzie, violenze, sadismo. «Oltre agli averi dei cittadini si die' 
      piglio ai vasi sacri e agli arredi dei tempi, si stuprarono vergini, le madri 
      insultavansi. Nel palazzo del principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de' nostri
      prigionieri gallette inzuppate di sangue...» - Tutto questo solo perché i genovesi,
      dopo la sconfitta di Carlo Alberto a Novara, avevano cercato di tornare 
      indipendenti di LUCIANO CAPRILEMi è capitato tra le mani un libro singolare ed interessante dal titolo:
      «Della 
      rivoluzione di Genova nell'aprile del 1849 esposta nelle sue vere sorgenti. Memorie
      e documenti di un testimone oculare. Italia 1850» Si tratta di una vicenda poco 
      gloriosa della nostra storia risorgimentale che si è cercato sempre di ignorare o 
      minimizzare. Nella premessa si precisa che «l'autore di queste memorie fu testimonio di fatti 
      e intende narrarli con interesse e senza studio di parte. Niuno finora, ch'ei sappia,
      cercò indagare il concetto che ingenerò la vigorosa manifestazione di Genova e la 
      verità soffocata pria dal cannone, venne quinci a gara stuprata dalle note officiali 
      e da prezzolati scrittori; poi lo stato d'assedio e le speciali nostre condizioni 
      posero un bavaglio alla bocca di chi con liberi intendimenti di cittadino poteva 
      farsene raccontatore (...) Chi scrive non appartiene a setta, a fazione di sorta 
      (...) scrive perché la protesta di Genova contro l'alleanza coll'Austria verrà 
      registrata con nobile orgoglio nell'istoria d'Italia, quando Italia sarà risorta 
      a dignità di Nazione. Marsiglia, novembre 1849». Per inquadrare la situazione occorre fare il classico passo indietro. Il 23 
      marzo, pochi giorni prima del fatti narrati, le truppe piemontesi di Carlo Alberto 
      erano state sconfitte dagli austriaci di Radetzky nei pressi di Novara, la «fatal 
      Novara», non senza ombra di tradimento. Infatti, conoscendo lo spirito repubblicano
      che animava molti volontari, in particolar modo i lombardi e i liguri, «l'aristocrazia
      piemontese che abborrìa dalla guerra ordiva un infernale congiura per cui nel bel 
      primo giorno della battaglia difettarono le vettovaglie sulle grasse contrade della
      Lomellina, fu interrotta ogni corrispondenza fra il Quartier Generale e Torino (...)
      E qual meraviglia se un esercito di oltre centomila combattenti, venne rotto da
      cinquantamila Tedeschi?» Carlo Alberto abdicò e fuggì ad Oporto; le condizioni d'armistizio furono che la 
      città d'Alessandria e il territorio tra il Ticino e il Sesia passassero sotto il 
      dominio austriaco. Udito il disastro di Novara e le contrattazioni di un armistizio a dir poco 
      disonorevole, Genova decise di non sottostare «né al Croato che invadeva, né al 
      Ministero che pareva essere in buona intelligenza con l'invasore». Nel frattempo l'Assemblea Nazionale, in comitato segreto, aveva stabilito che 
      tutte le province del Regno dovevano ribellarsi e che la sede del Governo si
      trasferisse a Genova. Alcuni tra i deputati furono inviati nelle varie zone ad 
      «accendere i popoli», da noi venne Costantino Reta. Intanto la città era in subbuglio e il generale De Asarta, comandante della 
      divisione militare regia, preoccupato della piega presa dagli eventi, «spediva 
      corrieri al generale Alfonso Lamarmora chiedendo pronti soccorsi di truppe per 
      ristabilire l'ordine in Genova». Ma gli avvenimenti precipitarono: il Municipio venne sciolto dalla popolazione 
      in rivolta, che costituì un «Comitato di pubblica sicurezza e difesa nelle persone 
      del generale Avezzana, dell'avvocato Daniele Morchio e del deputato Costantino 
      Reta»; il 2 aprile il De Asarta e i soldati regi furono cacciati da Genova e i 
      forti vennero occupati dai cittadini in armi. Intanto il generale Lamarmora si stava avvicinando alla testa di ingenti truppe.
      A nulla valse un appello di Costantino Reta per farlo desistere da uno scontro 
      fratricida. La città venne posta in stato d'assedio e, anche con l'aiuto di traditori
      infiltrati tra i genovesi le milizie reali riuscirono a poco a poco ad occupare 
      diversi forti ed alcune zone strategiche della periferia, nonostante la strenua 
      opposizione di uomini e donne di ogni età e ceto. «Ma gli orrori di una guerra sleale e veramente fraterna non bastavano ad 
      estinguere nei nostri aggressori la sete di sangue Trentasei oresotto le bombe
 Verso il meriggio del dì 5 aprile un fiero bombardamento intronava l'intiera 
      Città». Durava per ben trentasei ore. Le racchette, le bombe, le palle cadeano a 
      diluvio, sfondando i tetti e profondavano morti, incendii e rovine. Il quartier di
      Portoria ne fu sovra tutti mal concio e, mentre una sola bomba non cadde sovra i
      signorili palagi, le povere case e i tuguri de' popolani ebbero forate le mura da 
      que' micidiali tormenti. Sedici bombe caddero sovra l'ospitale di Pamattone che, 
      pur come ogni altro stabilimento di carità, aveva inalberato il negro stendale che 
      rende inviolate le mura su cui s'innalza... In ben oltre trecento cinquanta famiglie di S. Rocco, degli Angioli, di S. 
      Teodoro e di S. Lazzaro, come risulta dai documenti raccolti dal Municipio, infuriò 
      la bestialità delle forsennate milizie che sfondarono gli uscii delle pacifiche 
      case e tutto mandavano a ruba. Oltre agli averi dei cittadini si diè piglio ai vasi
      sacri ed agli arredi dei tempi - si stuprarono vergini - le madri insultavansi - nel
      palazzo del Principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de' nostri prigioni gallette
      inzuppate di sangue, diversi ufficiali animando coll'esempio i soldati...» Sedici cittadinipresidiano
 una fortezza
 «Fra tante soldatesche turpezze splende immacolato il nome di Alessio Pasini 
      bersagliere mantovano che intiere famiglie sottrasse alla brutalità de' suoi 
      commilitoni. Per il qual fatto veniva dal Municipio di Genova remunerato del dono 
      di una daga d'onore. E tanto più bella splende questa virtù di soldato italiano 
      quanto più volle offuscar lo splendore il suo capitano Longoni, quello stesso 
      Longoni che, deputato della Liguria (Rapallo), brandì l'armi contro Liguria 
      (...)». «Intanto non meno sinistre a noi volgeano le sorti in Val Bisagno. Il giorno 6 le 
      compagnie nazionali delle borgate di Marassi, Quezzi e S. Fruttuoso abbandonavano il 
      forte de' Ratti che venne nuovamente occupato da pochi individui spediti per una 
      ricognizione da L. I. capitano del forte S. Martino d'Albaro. Il dì dopo quegli 
      intrepidi difensori, non veggendo giungere il chiesto soccorso ed essendo inutile 
      temerità tentare una nuova difesa, abbandonavano il posto. Esso venne occupato dalle 
      truppe che bivaccavano nella soggetta valle di Bavari. Anche S. Tecla venne, perché
      deserta, in lor mano. Più fermo contegno ebbero a dimostrare sedici cittadini, che
      nell'abbandono de' loro commilitoni, vollero soli presidiare la fortezza di Riselieau
      (Richelieu n.d.r.). Veggendosi questi assaliti, durarono fermi all'attacco finché,
      fatto vano il loro valore, chiesero una onorevolissima capitolazione e poterono 
      uscire a tamburo battente con ogni onor militare. A riscontro di questo coraggio 
      giovi rammemorare la viltà del M. N. N., comandante il forte di S. Giuliano. Egli 
      portavasi l'8 aprile in compagnia del suo tenente N. N. a parlamentare con Alessandro
      Lamarmora in Sturla e quindi tornava a' suoi non con onorevoli accordi ma alla testa 
      di 200 piemontesi, obbligando i suoi militi ad uscirne disonorati e senz'armi
      (...) Concluso il primo armistizio e fuggiti i promotori dell'insorgimento, tranne 
      Costantino Reta che, dopo essersi adoperato a difesa della città, portavasi a bordo 
      del "Tonnerre", il Municipio cercava di convincere l'Avezzana alla resa da lui 
      rifiutata sdegnosamente in quanto sperava nell'arrivo dei corpi lombardi guidati dal
      generale Fanti. Ma egli «general Piemontese non avrebbe mai portato l'armi contro il
      Piemonte» e fece in maniera che non giungessero mai a destinazione». I bersaglieria passo di carica
 Dopo l'armistizio del giorno 6 fu concessa l'amnistia ma «da tal beneficio vennero
      esclusi i Triumviri e nove altri individui, i militari ed i rei di delitti comuni.
      Pria che Genova ricadesse fra le strette del suo primo governo, volle l'Avezzana 
      porre in salvamento coloro che si credea compromessi, particolarmente molti soldati 
      e quelli delle Real Navi in ispecie che lo seguitarono in Roma, Ultimo di tutti 
      povero egli partiva tanto che il Municipio dovette soccorrerlo con piccola somma
      (...)». «Il giorno 9 le truppe entrarono in Città, le precedeano i bersaglieri a passo di 
      carica, seguivano i squadroni di cavalleria, venivano in ultimo i fanti. Trentamila 
      uomini posero "l'ordine" in Genova (...). Entrate le truppe Genova fu la città del 
      martirio. Noi vedemmo un'altra volta dagli antri delle polizie tenebrose sguinzagliati
      i segugi, vedemmo destituiti senza ombra alcuna d'accusa fra i magistrati Celesia, 
      Montesoro, Balestreri e Grondona (...) Garibaldi, l'eroe di S. Antonio, di Luino e 
      di Roma non poté libero respirar l'aure della sua Genova e tolto di carcere venne 
      duramente respinto dalle sacre terre d'Italia. Cacciati i buoni, la sciabola era 
      arbitra sola dei nostri destini (...)». «Ed ora, nell'atto di deporre la penna, invochiamo concordia o fratelli che da 
      furie partigiane e da disamori mai non venne salute agli stati! (...) Caldo
      d'italiane speranze io vi chiamo innanzi all'altar della patria, oppressori ed 
      oppressi. Ivi congiungete le palme e il balsamo del perdono scorra sulle comuni 
      ferite». Con tale appello alla fratellanza intriso di retorica termina il lungo e 
      incalzante diario dello sconosciuto genovese del 1849 che in seguito si scoprì 
      essere l'avvocato Emanuele Celesia. Queste pagine ci dicono che il nostro Risorgimento, come tutti i risorgimenti, 
      non fu quell'epopea gloriosa e immacolata che abbiamo imparato sui banchi di scuola:
      combatterono e morirono per la causa eroi e uomini di fede ma agirono e prosperarono 
      anche traditori, profittatori e doppiogiochisti; non furono vissute solo le giornale 
      gloriose di Custoza e di Calalafimi ma anche quelle buie di Genova e di Bronte. Per 
      questo la gente deve sapere i rovesci delle medaglie, per potersi riconoscere e 
      confrontare non con semidei mitici od irraggiungibili ma con uomini che, col bene e 
      col male, hanno «fatto» questa Italia che pur ci appartiene. Solo con la conoscenza
      si può capire il presente e preparare un futuro possibilmente migliore, anche
      con la conoscenza di una scomoda verità che dopo centotrent'anni ci chiama dalle 
      pagine di un libro allora anonimo, oggi dimenticato. |