Le dieci giornate di Genova
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Il Lavoro Martedì 11 aprile 1961

LE DIECI GIORNATE DI GENOVA

1-10 Aprile 1849

Giuseppe Avezzana, staccandosi da Genova per incamminarsi sulla via dell'esilio, dava questo mesto e dignitoso addio al popolo genovese, che lo aveva dieci giorni innanzi acclamato primo fra i triumviri e a cui aveva affidato le fortune proprie e della patria italiana.

«Genovesi! La città è riconsegnata all'antico Governo. Voi sapete che ciò non dipese da me. Genova insorse un momento; e quel momento resta documento di ciò che possa il popolo, quando vuole davvero; l'insurrezione ridusse un numeroso presidio, forte di organizzazione e di posizioni, a capitolare; respinse e tenne una intiera armata alle porte, ed anche oggi questa non entra che nel trattato col vostro Municipio.

Forse Genova poteva più, forse la sua perseveranza avrebbe potuto pesare decisivamente sulla bilancia dei destini d'Italia. Ad ogni modo la nazione vi è riconoscente della solenne protesta contro le vergogne governative dell'infausta guerra; di un'ora di eroismo fra le viltà di cui purtroppo il vostro Governo sparse la fronte dell'Italia in faccia all'Europa.

Genovesi! La storia ricorderà lungamente le vostre barricate; Dio renda efficace e fecondo l'esempio. In quanto a me ringrazio quelli, che si sono battuti al mio fianco; e spero verrà tempo, in cui tutti possano mostrarsi tali. Intanto mi è sufficiente ricompensa la memoria, che io porto meco delle ore di gloria, la coscienza pura del resto e la speranza che molti fra voi mi ricorderanno con amore, certi di trovar sempre in me un uomo parato a morire sotto la bandiera della libertà d'Italia».

* * *

La catastrofe di Novara aveva avuto una lugubre ripercussione in tutta la penisola: a Napoli era rincrudita la tirannide; a Firenze la reazione aveva maggiormente risollevata la tesa; Roma e Venezia si erano preparate all'estrema difesa.

In Genova, sempre diffidente nei riguardi del secolare nemico cui il Congresso di Vienna l'aveva aggregata, la dichiarazione di guerra aveva alquanto riconciliati gli animi col governo; la disfatta fece ridestare l'antico rancore ed il popolo alzò un grido di maledizione e di rabbia.

Genova fu allora. l'animo di tutta Italia, animo palpitante di libertà.

Sarebbe stato possibile che Genova dimenticasse il «che l'inse?» del suo Balilla, che dimenticasse di essere la patria di Mazzini e di Ruffini morto per la fede italiana, che restasse inerte alle parole del re sulla via dell'esilio «tutto è perduto, anche l'onore»?

C. A. Vecchi (e non è ligure) scriveva qualche anno dopo: «Le moltitudini piemontesi, abituate allo ubidire..., a poco a poco si racchetarono... Non così in Genova; imperciocché quegli abitanti, più pronti, più arditi, più nervosi, più diffidenti de' loro comprovinciali d'oltre Appennino, sino allora governati senza senno politico, senza fiducia, or con maniere acri ed altiere, or con sospettose smanie e con inurbana violenza, aveano per siffatte ragioni diversamente accolto il nuncio d'una perdita così grande in tanto brevi battaglie. La malfrenata rabbia scintillava dagli occhi di tutti».

Angelo Brofferio, non solo non ligure ma piemontese (e il Generale Avezzana non è forse di Chieri?), scriveva a sua volta: «Come in Piemonte non poterono le cose terminare a Genova. Udito il disastro di Novara che tutti giudicarono tradimento, udite le condizioni dell'armistizio, che a tutti parvero disonorevoli, Genova alzò il capo fieramente e non volle sottoporsi né al Croato che invadeva, né al Ministero che pareva essere in buona intelligenza con l'invasore».

* * *

Genova era ormai tutta levata a tumulto, ed il suono a stormo delle campane chiamava i cittadini alle armi: si volle l'allontanamento di ogni milizia, e si ottenne che la guardia nazionale, di cui era capo il generale Avezzana, occupasse le porte della Lanterna, della Pila e Romana e i forti dello Sperone e del Begato. L'effervescenza popolare sempre più si accentuava: sinché il 31 marzo si presentò al Consiglio Municipale, che sedeva in permanenza, una Commissione, per chiedere a nome del popolo che un triumvirato, composto del generale Avezzana, dell'avvocato Morchio e del deputato Reta, prendesse la direzione delle cose della città: Nella sera, poi, con impeto tempestoso si slanciò il popolo sull'arco che univa il Palazzo Ducale con S. Ambrogio, covo dei Gesuiti, ed in breve tempo fu sfasciato tra il plauso della moltitudine.

Siamo al 1° di aprile, e la Guardia Nazionale frammista al popolo sfonda le porte della Darsena: marinai e soldati, ivi rinchiusi, fanno causa comune.

Ormai, con la capitolazione di tutto il presidio ed il suo allontanamento da Genova, Genova è in mano del popolo. E allora l'Avezzana pensa alla difesa della città, mettendo presidii sulle mura e costruendo barricate nell'interno. E qualche vecchio popolano genovese raccontava ancora, una cinquantina di anni fa, di avere visto in questi giorni il generale Avezzana ad ispezionare le barricate accompagnato da un giovane biondo e pensoso. Questi era Goffredo Mameli, venuto da Roma segretamente in missione presso l'Avezzana e pronto a ritornare - caduta la sua città - a Roma per combattervi ancora e morirvi.

Intanto il Generale Alfonso Lamarmora, mandato dal Governo a soffocare il moto genovese, è giunto alle porte della città, intimando la resa a discrezione della piazza e non concedendo che 24 ore di tempo ai compromessi per abbandonarla. A questa intimazione fremette la generosa gioventù che circondava l'Avezzana, e tutti protestarono, facendo rispondere all'inviato: «Genova si seppellirà sotto le sue rovine prima di commetter viltà».

Ma la porta della Lanterna era quasi indifesa: e quindi i pochi che la presidiavano furono costretti, quando furono attaccati, ad abbandonare il posto.

Uno però fra tutti non volle ritirarsi e, dato di piglio a tutti i fucili lasciati dai suoi compagni, li accatastò sull'alto di un muro e da questo, con animo impavido, non dalle feritoie o dietro un riparo, ma esponendosi a pieno bersaglio degli aggressori, li scaricò uno dopo l'altro contro gli stessi. Già le braccia quasi più non gli reggevano, i colpi si seguivano meno spessi e la riserva dei fucili - ne aveva sparati quasi sessanta - quando una palla colpi in fronte l'eroe. Questo valoroso fu Luigi Rattazzi, sergente della guardia nazionale, sarto di professione e padre di sette figli.

* * *

Il 7 aprile si dovette tentare una ricognizione presso il Begato. A questa sortita si era unito fra i primi Alessandro De Stefanis, giovane di 24 anni, nato a Savona. Studente nell'Ateneo genovese, ebbe a compagno Goffredo Mameli, con cui si legò in amicizia per comunanza di affetti e di aspirazioni, e insieme al quale, alla prima notizia dell'insurrezione di Milano, volò in Lombardia. Egli fu pertanto in questa sortita gravemente ferito ad una gamba. Trascinatosi a stento in una vicina capanna, fu visto dai suoi feritori che barbaramente si scagliarono su di lui, coprendolo di ferite e lasciandolo per morto. Fu trovato da un contadino, che lo ricoverò in casa sua; ma spirò il 4 di maggio dopo quasi un mese di atroci sofferenze, compianto da chi ne conobbe il valore e le virtù cittadine. Ebbe degno monumento nella chiesa di Oregina, sul quale è scritto: Odi la voce del sangue innocente - O Liberatore supremo.

Frattanto il Lamarmora bombardava spietatamente la città, sfondando tetti, producendo molti incendi e facendo affondare parecchie delle navi ancorate in porto. Sedici bombe caddero sull'Ospedale di Pammatone quantunque avesse issata bandiera nera, destando fra gli ammalati scene di indicibile spavento.

La soldatesca, avanzando, si abbandonava alla sfrenatezza e al saccheggio. Se le porte di casa erano chiuse, venivano atterrate a viva forza, dopo avere scaricati i fucili contro le finestre: un giovinetto di 11 anni, che si era affacciato alla finestra sentendo bussare, vi lasciò la vita.

Solo fuggendo, le donne poterono salvarsi da ogni brutalità: in una casa il marito, legato ad un tavolo, fu costretto ad assistere all'onta che gli si faceva.

Nulla fu rispettato: gli arredi sacri, che si trovavano nel santuario di Belvedere, e così pure quelli della chiesa dei Missionari di Fassolo, vennero rubati.

Non tutti i militari però furono certamente a darsi ad imprese siffatte: ed anzi ve ne furono alcuni che si opposero a tali barbare gesta.

E fra tutti primeggia Alessio Pasini, dal Municipio poscia pubblicamente lodato e distinto con daga d'onore. Oppose egli il suo petto a carabine e pistole puntate a minaccia di fucilazione contro un distinto magistrato - il senatore Daneri - ed un servo, già fatti inginocchiare. Nella stessa guisa difesa un'altra famiglia di certo Peri. In ricompensa dei servigi prestati un giovane volle regalargli una catena d'oro, e la rifiutò; il senatore Daneri volle donargli una discreta somma di denaro, e la ricusò; interrogato dal Municipio se desiderava denaro, ricusò ancora.

Il Municipio poi gli decretò una «daga d'onore» che, nonostante le proteste del Lamarmora (che aveva anzi intentato un processo contro di lui) gli fu consegnata da Raffaele Rubattino in Francia, dove - disertate le regie file - si era rifugiato.

* * *

Genova non poteva più resistere.

Il Municipio intavolava trattative con Lamarmora, e l'Avezzana rimetteva nelle mani della Municipalità l'autorità che gli era stata affidata.

La capitolazione fu segnata, e fu concessa l'amnistia, esclusi i seguenti: Generale Avezzana, avv. Morchio, deputato Reta, avv. Lazotti, avvocato Pellegrini, avv. Campanella, marchese Cambiaso, ed altri quattro.

Il giorno 11 rientrarono le truppe regie. E Genova fu allora la città del martirio: proclamato lo stato d'assedio, lo scioglimento della guardia nazionale, soffocata la libertà di stampa, prigionia per molte persone ree di presunti delitti politici e che ritenevano usbergo la data amnistia, destituzioni di distinti magistrati e di prodi ufficiali.

Come la popolazione accogliesse il Lamarmora è noto. Lo confessa del resto egli stesso: «Durante l'ingresso delle mie truppe, e ancora dopo, si ritirò nelle case, chiudendo tutte le porte e tutte le finestre, per cui le vie erano tutte deserte». Ma non se ne addolorò: «sapevo che anche il nuovo re era stato ricevuto a Torino dalla popolazione, anziché con entusiasmo, con molta freddezza».

Il giorno 26 luglio si fece il processo agli esclusi dalla amnistia. Furono tutti (meno uno condannato ai lavori forzati) condannati a morte; ma tutti si erano posti in salvo, recandosi, parte in esilio e parte - dove ancora si pugnava per la libertà - a combattere e a morire sugli spalti di Roma.

* * *

Esaurita la fantasiosa celebrazione del primo centenario dell'Unità d'Italia ritorni modestamente a far capolino la Storia, «testus temporum, lux veritatis».

G. G. (Gian Guido) Triulzi

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