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L'insurrezione del '49

di Giovanni Assereto*

[N.B. il grassetto è mio, ndr]

La dichiarazione di guerra del Piemonte all'Austria, il 23 marzo, parve per un attimo arrestare le spinte centrifughe e autonomiste, ma subito la spaccatura tra Genova e Torino riemerse di fronte alla contraddittoria condotta delle operazioni militari da parte di Carlo Alberto e alla sua volontà di procedere a una semplice annessione delle nuove province lombardo-venete, in una prospettiva autoritaria e accentratrice, anziché dar vita a una più vasta e moderna compagine statale. Si formò allora un fronte che vedeva Milano e Genova unite contro le pretese del Piemonte, e nel capoluogo ligure i gruppi democratici e repubblicani presero più vigore. Quando poi il 25 luglio venne la sconfitta di Custoza, seguita il 9 agosto dall'armistizio Salasco tra il Piemonte e l'Austria, l'iniziativa democratico-rivoluzionaria a Genova ebbe il sopravvento sulla dirigenza moderata, e si manifestò subito una più marcata avversione verso il governo sabaudo. Tra il 7 e il 16 agosto, nel corso di alcuni moti di piazza estremamente violenti, vennero distrutti i forti di San Giorgio e di Castelletto, simbolo dell'«oppressione piemontese», mentre un consistente nucleo di deputati genovesi firmava una protesta contro l'armistizio, dichiarandolo incostituzionale. Nei mesi seguenti la città continuò ad essere teatro di vivaci agitazioni popolari, guidate dagli elementi più estremisti. Ma ben più grave divenne la situazione quando la guerra all'Austria, ripresa il 12 marzo 1849, si concluse undici giorni dopo con la definitiva sconfitta di Novara. La notizia giunse a Genova in forma confusa, accompagnata da voci secondo cui la città doveva essere occupata dalla divisione del generale Alfonso La Marmora, il quale l'avrebbe poi consegnata al nemico. Già il 27 marzo il popolo, sotto la guida di repubblicani e democratici, diede inizio a una protesta che nei giorni seguenti non fece che radicalizzarsi: si chiedeva che la guerra continuasse, si voleva che Genova assumesse una funzione di guida nella lotta popolare e nazionale contro l'Austria in collegamento con un movimento insurrezionale che interessasse il Lombardo-Veneto, la Toscana e lo stato pontificio. Gli insorti ben presto si impadronirono del Palazzo Ducale, dell'arsenale, di alcuni forti e cacciarono dalla città le truppe del presidio e i carabinieri. Fino a questo punto, nonostante la gravità delle tensioni, i rivoltosi avevano dichiarato che Genova sarebbe rimasta «inalterabilmente unita al Piemonte». Ma il governo decise di inviare nel capoluogo ligure 25.000 soldati al comando del generale La Marmora per reprimere l'insurrezione, e la relativa unanimità dei primi giorni venne meno perché molti esponenti borghesi che avevano partecipato ai moti, spaventati dalla piega degli avvenimenti e dall'azione sempre più violenta delle masse popolari, si fecero da parte. A combattere e a ribellarsi restarono gli irriducibili, la cui lotta assunse anche caratteri di rivoluzione sociale: fu quasi un «abbozzo anticipato della Comune di Parigi», come ebbe a definirla lo storico francese Charles de Mazade, o forse un rigurgito di quelle violente sommosse di cui s'era resa protagonista la plebe di Genova ai tempi dell'antico regime, nel 1746 e nel 1797. Tutto si concluse con l'ingresso in città delle truppe piemontesi, le violenze e i saccheggi da queste commessi (gli «eccessi infami e orrendi dei nostri soldati», come li definì Ilarione Petitti), lo stato d'assedio decretato per quasi tutto il 1849 (durante il quale Genova vide anche Garibaldi incarcerato a Palazzo Ducale), lo strascico di rancori che ne derivò e che era destinato a durare a lungo, se ancora ai nostri giorni a Genova il nome di La Marmora è esecrato e c'è chi vorrebbe tirare giù dal suo piedistallo il monumento a Vittorio Emanuele che campeggia nella centralissima piazza Corvetto.

Certo è che l'insurrezione del '49, benché ne siano ancora in parte misteriose le motivazioni e la dinamica, rappresentò un tornante di grande rilievo nella storia di Genova. La storiografia ufficiale e l'ideologia delle classi dirigenti si sforzarono in seguito di rimuoverne alcuni aspetti. Nei resoconti redatti all'indomani degli eventi (come il Commentario delle cose accadute in Genova in marzo e in aprile del 1849 scritto per ordine del Municipio da Federigo Alizeri) le violenze degli insorti furono attribuite a una minoranza, «la feccia del popolo», o agli esuli e ai profughi che in quei giorni affluivano in città, «una turba di toscani e lombardi», «sconosciuti di varia lingua». Soprattutto si cercò, nelle cronache posteriori e nelle ricostruzioni storiche, di accreditare una versione patriottica dei moti, il cui scopo sarebbe stato quello di salvare la nazione dallo sfacelo in cui la malaccorta politica governativa l'aveva ridotta. Invece tutto sta a testimoniare il carattere separatista dell'insurrezione, il feroce sentimento antipiemontese che lo animò.

Quelle giornate dolorose - è stato scritto molti anni fa da Enrico Guglielmino - rappresentano gli ultimi bagliori dello spirito d'indipendenza tramandato per eredità dalla vecchia Repubblica. Scaturirono da un complesso gioco di passioni diverse: così la coscienza dell'importanza politica di una città che mal soffriva di sostenere una posizione di second'ordine nel moto per il Risorgimento italiano, combinandosi con l'entusiasmo patriottico antiaustriaco, con le simpatie per la Lombardia tradita, con le speranze dei repubblicani, sfruttata ed eccitata da mestatori d'ogni colore, finì per condurre ad un'esplosione violenta che, per non essere sorretta da un'idea centrale e positiva, né da uomini di matura capacità politica, in pochi giorni fallì. Il vizio d'origine che si manifestò nei moti del 1849 sta appunto in questo, che le tendenze unitarie e quindi nazionali di Genova furono in gran parte determinate da uno stato d'opposizione al Piemonte».

Fu dunque il culmine drammatico della lunga ostilità tra Genova e il governo sardo, attenuata ma non spenta negli anni precedenti; nel con tempo segnò la fine della leadership da parte del vecchio patriziato: esso aveva cercato, attraverso i più audaci dei suoi membri, di guidare il movimento politico del 1848-49, ma la situazione gli era sfuggita di mano; per un momento si era proposto come classe dirigente nazionale, alla pari con gli esponenti più capaci e illuminati dell'aristocrazia piemontese, ma aveva fallito il suo scopo. Gli anni a venire, il cosiddetto «decennio di preparazione» all'unità d'Italia, sarebbero stati caratterizzati a Genova da due tendenze prevalenti: da un lato una sempre più marcata egemonia delle classi borghesi - 'negozianti', banchieri, industriali, armatori - alle quali i nobili avrebbero finito per accodarsi e per uniformarsi nelle strategie economiche e politiche; d'altro Iato un continuo sforzo da parte del governo sardo per far rimarginare le ferite del 1849 e operare una definitiva riappacificazione. Il compito tuttavia non si sarebbe rivelato facile:

«I popolani genovesi - ha scritto molto efficacemente Bianca Montale - non dimenticheranno, e molti di loro parteciperanno al tentativo insurrezionale del 1857 con l'intento dichiarato di "rifare il '49"; il paese legale invierà al parlamento subalpino, prima del 1860, deputati di opposizione, moderata o cattolica, fortemente municipalisti ed antipiemontesi. Solo con l'avvio dell'unità qualcosa incomincerà a cambiare. Ma i repubblicani di stretta osservanza nel loro aspro giudizio metteranno sullo stesso piano Vittorio Emanuele, bombardatore di Genova, e Ferdinando II, bombardatore di Messina».

*Professore ordinario di Storia Moderna nell'Università di Genova

Tratto da Giovanni Assereto, Dalla fine della repubblica aristocratica all’Unità d’Italia, in Storia di Genova, a cura di Dino Puncuh, Società Ligure di Storia Patria, Genova 2003, pp. 536-537.

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