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il Giornale Martedì 8 marzo 2005

GENOVA E IL REGNO DI SARDEGNA

L'altra faccia dell'attacco dei Savoia nel 1849

Quali sono i motivi che hanno portato i genovesi a insorgere contro i piemontesi nel 1849? È questa la domanda che, periodicamente, si pone il Movimento Indipendentista Ligure, reduce dal Convegno del 10 febbraio: è anche, per noi, un'occasione per riflettere sulla situazione storico-politica del tempo e per tentare di dare una risposta.

Se l'annessione della Ex-Repubblica di Genova al Regno di Sardegna è un dato di fatto - per altro sicuramente comprensibile, nell'ottica di costituire uno Stato-cuscinetto come deterrente antifrancese - è altrettanto evidente che la Repubblica aveva ormai, da tempo, perso ogni slancio politico e culturale, finendo coll'arroccarsi in una difesa di interessi materiali tanto strenua quanto miope. Questo, sin dal tempo della nuova costituzione del 1576 e dei dogi elettivi, che cristallizzava il potere politico nelle mani dell'aristocrazia e che, colla rivolta di balilla del 1746, perdeva la sua più grande occasione di legarsi a quell'Impero austriaco che, con Maria Teresa e Francesco di Lorena prima e di Giuseppe II poi, avrebbe potuto garantirle un periodo di illuminate riforme e di rinascita culturale. Questo, invece, non si realizzerà, tanto è vero che gli ultimi decenni della Repubblica vengono caratterizzati da un notevole immobilismo socio-politico e da una ben scarsa attività riformistica.

Se gli eventi della Francia rivoluzionaria portano i francesi ad imporre lo scioglimento della repubblica aristocratica e la redazione di una Carta democratica sul modello francese, l'annessione all'Impero napoleonico del 1805 segnava una svolta ulteriore al suo destino. E il Congresso di Vienna non le restituirà la libertà ma, al contrario, viene definitivamente annessa a un Regno di Sardegna che, a quel tempo, era sicuramente uno dei Regni più retrivi e reazionari del tempo. Genova, da parte sua, è una città fieramente repubblicana che mal sopporta l'annessione al Piemonte sabaudo.

L'ottavo Congresso degli Scienziati Italiani, che si tiene a Genova nel 1846, è l'occasione per una serie di manifestazioni contro il «nuovo austriaco», quel Piemonte al quale non si perdona l'annessione. Fra i «circoli» politici, quelli moderati sono ormai una minoranza, in quanto sono soprattutto i democratici, fautori di un radicalismo repubblicano, a muoversi sullo scacchiere politico: è in quest'ottica che va letta l'adesione entusiasta alla I Guerra di Indipendenza, colla quale Carlo Alberto dichiara guerra all'Austria indebolita dai disordini che, nel 1848, avevano colpito i principali centri dell'Impero. La sconfitta di Custoza, che pone termine alla prima parte della guerra, porta i repubblicani genovesi ad accusare Carlo Alberto di essere un traditore e di ricominciare le agitazioni, sino a quando il Re decide di riprendere la guerra che terminerà col disastro di Novara del 1849 e la conseguente abdicazione in favore di Vittorio Emanuele II.

È a questo punto che la situazione precipita, in quanto gruppi moderati vengono costretti al silenzio e riprendono vigore i repubblicani più estremisti: non si comprende l'importanza della decisione regia di non abrogare lo Statuto albertino, e si cominciano a far circolare voci, false, che danno per imminente l'abolizione del tricolore e l'occupazione austriaca della città. In un clima siffatto, è molto facile per i repubblicani far esplodere la rabbia popolare che travolge le poche truppe di stanza in città: il Municipio, ormai in mano agli insorti, manderà un messaggio al Parlamento di Torino, offrendo addirittura ospitalità nel caso che la guerra fosse ripresa da Genova. In una situazione di totale disfatta, nella quale i savoia tentano disperatamente di non subire un aggravamento delle condizioni di pace, l'insurrezione non può non apparire assurda se non addirittura controproducente. Né si può asserire che i rivoltosi genovesi abbiano dato dimostrazione di moderazione: vengono linciate guardie di polizia, viene fatto letteralmente a pezzi il maggiore dei carabinieri Angelo Ceppi, vengono posti sotto controllo dei rivoluzionari tutti i forti genovesi. In questo contesto, era chiaro che due erano le possibilità: o sarebbero intervenuti i piemontesi oppure, come già in situazioni analoghe nel 1821, gli stessi austriaci.

Vittorio Emanuele II si trova pertanto obbligato a reagire: non solo per evitare pericolose derive repubblicane dei moti rivoluzionari, ma anche per tranquillizzare un'Austria vittoriosa sui campi di battaglia.

È in questo contesto che matura la decisione dell'attacco duro e deciso del 5 aprile 1849, affidato alle truppe d'élite dei bersaglieri di Alfonso la Marmora, nominato Commissario Straordinario di Genova. La lotta risulta durissima da entrambe le parti, e se è innegabile che le truppe piemontesi si daranno al saccheggio di quegli abitati da cui era stato maggiore il fuoco antipiemontese, è altrettanto evidente il rischio che l'insurrezione genovese, politicamente miope, rischiava di comportare per gli sviluppi futuri: il ristabilimento dell'ordine pubblico, sia pure a caro prezzo per la popolazione di Genova, sarà una delle condizioni da cui partire per acquietare gli Asburgo e per programmare, una volta comparso sulla scena politica il Cavour, una prosecuzione più consapevole verso l'Unità del Paese.

Glauco Berrettoni (An)
Vice Presidente Circoscrizione
VIII-Medio Levante

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