Ma il duca d'Aosta era un'altra cosa
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Il Secolo XIX Mercoledì 6 febbraio 2002

Ma il duca d’Aosta era un'altra cosa

GIOVANNI REBORA

Il Parlamento è sovrano, lo abbiamo votato noi e seppure abbiamo ragione di lamentarci se vota provvedimenti che non ci vanno a genio, dobbiamo aspettare di votare di nuovo. Intanto il Parlamento si riunisce e vota il ritorno della famiglia Savoia, quella della casa regnante. Pare che si tratti di un problema importante, il Paese può aspettare, per gli altri problemi, che diamine! Se non fosse per il sospetto che tanto interesse e tanto amore per l'Italia, sia legato a qualche possibilità di riappropriarsi di beni a suo tempo usurpati, direi che non me ne importerebbe nulla, potrei dire, col milanese di Manzoni: "...vai, vai, povero untorello, non sarai tu che scardinerai Milano...". Ma quella casa regnante, dopo essersi impossessata dell'Italia con l'aiuto degli stranieri, ha davvero scardinato il Paese e non solo Milano. I figli e i nipoti del duca d'Aosta non sono stati mai cacciati. Non credo che siano ferventi mazziniani, repubblicani storici toscani o romagnoli, ma mi sembra che abbiano conservato una dignità che fa loro onore, come fa loro onore il fatto che il duca d'Aosta abbia combattuto fino all'ultimo sull'Amba Alagi, ed al momento della resa, che ha salvato la vita dei suoi uomini, abbia ottenuto l'onore delle armi dagli inglesi che avevano vinto. Mentre Amedeo D'Aosta era prigioniero (spero "speciale ") degli inglesi, i suoi parenti fuggivano in Egitto portando con sé lo stato maggiore.

Questa fu l'ultima vigliaccata. Ce ne furono anche prima, quando Vittorio Emanuele II scrisse a La Marmora elogiandolo per gli stupri e i massacri perpetrati a Genova dai suoi bersaglieri ai danni degli ortolani di San Teodoro e per gli sfregi ed i danni arrecati alle suppellettili del palazzo Doria di Fassolo, il "Padre della Patria", forse chiamato così per il gran numero di figli disseminati per il Piemonte, scrisse a La Marmora che i genovesi erano "canaglie" e che si dovevano usare le maniere forti. Il suo bambino, il Re Buono (Umberto I) decorò Bava Beccaris di medaglia d'oro per aver sparato cannonate contro i dimostranti di Milano (vorrei ricordare che non erano comunisti, quei dimostranti). Di Vittorio Emanuele III non voglio parlare, ero un ragazzo e potrei scrivere "per partito preso", come ha detto un mio vecchio compagno di scuola che confonde i fatti con i giudizi sui fatti. Però ricordo un manifesto bianco, tutto scritto, sul quale una figura di professore "bieco" si allontanava dalla figura che rappresentava una scuola: era l'insegnante ebreo cacciato da una legge regia.

Fatto sta che quei signori che si vantavano di aver "fatto l'Italia" non permisero che venisse scritto nei libri di storia che la Lombardia fu data ai Savoia da Napoleone III che aveva vinto a Solferino e San Martino mentre il generale Cialdini veniva battuto a Custoza; che il Veneto fu dato ai Savoia dai Prussiani che avevano vinto contro gli austriaci a Sadowa mentre l'esercito dei Savoia veniva battuto (guarda un po') a Custoza, da Radetzky, sempre lo stesso, quello della marcia di Radetzky e delle Cinque giornate di Milano.

Questo per ricordare le glorie inesistenti della casa regnante che deve a Cavour l'abilità nel concludere alleanze.

Finisco queste righe con un richiamo al mio Paese, la Liguria, che è stata repubblica fino dall'anno 900 ed è rimasta tale per mille anni, per un ligure cent'anni di dominazione savoiarda sono perfino pochi, se chi ritorna vorrà avanzare pretese o diritti vada dove meglio gli pare, ma lasci stare la mia Patria, saremmo capaci di ripetere il 1849, ma - stavolta - il successo sarebbe duraturo.

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