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1) I Plebisciti

[...omissis...]

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Noterelle di storia antirisorgimentale

 

I plebisciti

di   Maurizio-G. Ruggiero

Per legittimare l’annessione militare sabauda degli antichi Stati italiani, che si voleva sottrarre con la forza al governo dei legittimi Prìncipi [1] , amatissimi dalle rispettive popolazioni, il Gabinetto di Torino, massoni e la minoranza liberale nelle province occupate orchestrarono diversi plebisciti, ai quali per le modalità con cui avvennero le consultazioni ben s’addice la definizione di plebisciti-truffa.

Il plebis scitum (decreto della plebe) antica fonte del diritto della Roma antica, fu riportato in onore prima da Napoleone I e in seguito dal nipote Napoleone III, in entrambi i casi per legittimare i rispettivi colpi di Stato del 1799 e del 1851. In proposito giova ricordare che in età moderna “non si dà esempio di un plebiscito il quale riuscisse contrario a coloro che lo proposero [2] .

La Lombardia fu piemontesizzata nel 1859, al tempo della seconda guerra risorgimentale, senza celebrazione di plebisciti [3] : a mano a mano che le truppe imperiali si ritiravano, i municipi lombardi, incalzati ad adeguarsi dalla fazione liberale e dai sopraggiungenti eserciti franco-piemontesi, si pronunziavano per Vittorio Emanuele, e questi, con propri decreti, iniziava a governare le nuove province.

I plebisciti risorgimentali chiamarono alle urne (dal 1860 al 1870) solo una minima percentuale della popolazione (il 19% a Napoli, fino ad un massimo del 26% in Veneto); in secondo luogo si svolsero senza la minima garanzia d’imparzialità e segretezza, senza nessuna supervisione internazionale, indetti e gestiti dall’occupante piemontese [4] , sotto il suo diretto controllo militare e poliziesco, in un clima di propaganda giornalistica asfissiante in favore dell’annessione [5] e d’intimidazione continua specie nei riguardi del clero cattolico [6] .

In Toscana, ad esempio, dal Ricasoli fu vietata la libertà di stampa e di parola a chi non era del partito piemontese fino alla sera del giorno che precedette le votazioni [7] ; impossibile naturalmente in così breve giro di ore mettere in piedi giornali o comitati per il no; a differenza dei fautori del no, che erano o esiliati o incarcerati, i liberali poterono organizzare comitati per l’annessione in ogni Comune e inviare in ognuno una trentina di uomini armati per atterrire i contadini, [8] minacciati dai padroni liberali di licenziamento dalle loro terre, se si fossero pronunziati per l’amato Granduca. Per parte sua la stampa risorgimental-massonica dichiarava reo di morte chi non avesse votato per l’annessione. I tipografi toscani furono diffidati dallo stampare scritti contrari all’annessione e “avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato [9] ”.

Stesso cliché nelle Legazioni (Bologna, Ferrara e Romagne [10] ) che furono strappate al Papa dopo che i liberali vi avevano artatamente provocato rivolte per offrire al Governo piemontese un facile pretesto per ingerirsi e imporvi i suoi Commissari regi. Anche qui s’indisse il plebiscito per la loro annessione al regno sardo e anche qui “estorto contro ogni diritto un suffragio popolare a forza di pecunia, di minacce, di terrore e d’altri astuti artifici, [il Governo di Torino] non dubitò punto d’invadere le menzionate Nostre province, di occuparle e ridurle in sua potestà e signoria. Vengono meno le parole per riprovare condegnamente tanto delitto, nel quale solo si comprendono misfatti molti e gravissimi” [11] . Nell’ex Ducato estense e nella città di Ferrara in particolare, parecchi giorni prima del voto la polizia perquisì le abitazioni di molti sudditi fedeli al Santo Padre; si sprecarono le stampe empie contro il Papa; i preti venivano minacciati di morte col pugnale; le guardie civiche ebbero l’ordine di distribuire alle singole case le schede in favore dell’annessione in numero dieci volte maggiore rispetto a quelle con le quali si sarebbe optato per lo Stato della Chiesa; i poveri e i deboli furono minacciati qualora non si fossero manifestati col loro voto per il Piemonte e così pure fecero fattori e possidenti con i loro contadini e operai, minacciati di licenziamento [12] ; gli artigiani furono comprati con un po’ di denaro, vino e acquavite; furono poi “in gran numero coloro che prezzolati o comparvero più volte o in una volta deposero più schede” [13] ; il Rettore dell’Università ammonì i suoi studenti che mancare al era mostrarsi traditori della patria e si recò insieme con loro alle urne per suffragare i Savoia [14] .

I vari commissari o dittatori regi [15] , che nel nome di Vittorio Emanuele II reggevano le province allora definite redente, fecero a gara affinché l’esito della consultazione risultasse appunto il più plebiscitario possibile, talvolta anche a prezzo del ridicolo [16] .

L’imposizione del voto palese e le sfacciate pressioni esercitate sugli elettori acquistarono un particolare profilo di gravità, anche internazionale, in Veneto. Infatti il trattato di Vienna del 3 ottobre 1866 poneva fine alla terza guerra risorgimentale: l’Impero, pure vincitore sul nazionalismo sabaudo sui campi di Custoza e nelle acque dell’Adriatico a Lissa [17] , cedeva le terre venete (chiamate dall’Arciduca Alberto nel suo proclama alle truppe “la più bella gemma della Corona del Nostro Augusto Monarca [18] ) non ai Savoia, ma alla Francia di Napoleone III [19] , cessione alla quale l’Impero era costretto dalla sconfitta subita dai Prussiani a Sadowa, il 3 luglio 1866. Il trattato di Vienna disponeva testualmente che la cessione del Veneto (con Mantova e Udine) dovesse aversi “sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate [20] e per fingere di rispettare le clausole di quel trattato, il decreto sabaudo sull’organizzazione del plebiscito veneto [21] , prevedeva agli artt. 5 e 9-12 il suffragio a scrutinio segreto, la suggellatura dell’urna da parte del seggio e lo spoglio dei voti da effettuarsi dal Pretore, che avrebbe dovuto conservare gli atti nell’archivio, redigerne verbale da trasmettere alla Presidenza del Tribunale d’Appello di Venezia, la quale a sua volta doveva comunicare i risultati parziali spogliati al Ministro della Giustizia.

Come avvennero in realtà le votazioni in Veneto [22] e in tutte le altre regioni annesse? Ammessi al suffragio erano i ventunenni maschi (ma garibaldini, fuoriusciti politici e soldati risorgimentali votavano senza limiti d’età); erano invece esclusi i compromessi con la causa dell’Imperatore. Per comprarsi la complicità dei pubblici impiegati, questi furono conservati in servizio e gratificati dello stipendio con decorrenza retroattiva.

In occasione del plebiscito toscano i patrioti offrivano in mano agl’illetterati e specie a chi non sapeva leggere la sola scheda del ; a taluni davano ad intendere che era soltanto una richiesta per avere il pane ad un prezzo più conveniente; ad altri che vi era l’obbligo di deporre la scheda del sì nell’urna, sotto pena altrimenti di uno scudo di multa e di diversi giorni di carcere [23] . Qualche analfabeta fu ingannato, assicurandolo che quel biglietto del voleva dire al ritorno del Granduca. Nei seggi, i pochi oppositori rimasti, i più recalcitranti venivano schiaffeggiati e minacciati di morte col pugnale alla gola. I teppisti dell’annessione si divertivano invece a votare in più seggi o a gettare nell’urna un bel mucchietto di schede ciascuno, [24] oppure a votare sfruttando il nome di persone che sapevano ammalate o assenti o che si volevano astenere dal votare, ben consci che, quale estrema risorsa, sarebbe rimasto in ogni caso il broglio elettorale a trarli d’impaccio [25] .

Il povero elettore veneto o di altra regione, doveva anzitutto dichiarare le proprie generalità al seggio e sotto l’occhio vigile dei nazionalisti risorgimentali, portare al Presidente del seggio una delle due schede che gli venivano offerte: o quella con il o quella con il no. La scheda veniva depositata in una delle due urne separate, una per il e l’altra per il no, in modo da rendere perfettamente palese l’espressione della volontà di chi votava sia al seggio sia a tutti i presenti, esponendo automaticamente il temerario oppositore dell’unità sabauda ad ogni genere di ritorsioni e di vendette. Il nome dell’elettore che votava no veniva segnato in un registro diverso e separato da quello su cui venivano annotati i nomi di quelli che si erano espressi per il sì. Per meglio assicurare la pubblicità del voto e il controllo dei riottosi, in talune località si giunse addirittura a colorare diversamente le schede del da quelle del no [26] . La sala adibita a seggio traboccava di scritte inneggianti all’unità e i nazionalisti giravano fregiandosi della scritta sul cappello. Per sorvegliare il ceto contadino e i sacerdoti si era provveduto a: intimidire i parroci [27] (quelli che erano rimasti, giacché alcuni, come l’arciprete di Cerea [28] , nel veronese, per sfuggire alle violenze degl’iniqui, avevano dovuto seguire l’esercito imperiale in Tirolo); imporre loro di predicare durante la messa in favore del ; impedire che i contadini [29] votassero in sezioni troppo piccole dove potessero sentirsi di casa, cioè al sicuro e non sufficientemente condizionati dal regime. Il contadino illetterato soggiaceva poi ad un’ulteriore pressione, costretto com’era a farsi scrivere il voto dal padrone risorgimentale, sotto i cui occhi doveva esprimersi per il o per il no.

La piena pubblicità dei suffragi rende inutile lo spoglio finale delle schede e in alcuni centri il personale del seggio conclude le operazioni di voto e il relativo protocollo al grido di “Viva l’Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja [30] ”.

Il quesito fu più o meno il medesimo in tutte le province annesse: “Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti? [31] Naturalmente i suffragi per il raggiunsero picchi (poteva essere diversamente?) mai più toccati neppure da Stalin: chi può credere che il 99,99% dei veneti coltivasse sinceri sentimenti unitari e che solo un elettore su diecimila celasse simpatie per l’Impero [32] , quando ancora il giorno innanzi la battaglia di Custoza la popolazione veronese accorreva in massa per le strade a ristorare le truppe di Francesco Giuseppe stremate dal caldo e dalla fatica? [33] A Napoli l’unanimità del voto fu garantita dai bastoni dei camorristi, chiamati dai liberali a sostenere il nuovo governo, a forza di violenze e corruzione. Garibaldi e risorgimentali si divertirono andando a votare più volte e le modalità del voto scandalizzarono i pur benevoli osservatori stranieri. [34]

A Roma [35] dopo l’ingresso delle truppe sabaude il 20 settembre [36] , il 2 ottobre 1870, giorno fissato per il plebiscito, si ripeterono le stesse scene già viste altrove. Sinistri personaggi che votavano più volte in seggi diversi; drappelli di teppisti non meno sinistri che stazionavano presso i seggi, offrendo ai votanti le due schede col e col no. Naturalmente la patriottica masnada applaudiva freneticamente chi prendeva la prima scheda, mentre erano fischi e ingiurie per chi osava pigliare la seconda, manifestando così il suo coraggio. Pur essendo del tutto scontato l’esito della (truccatissima) consultazione [37] , i liberali in segno di giubilo suonano a distesa la grande campana del Campidoglio e il giorno seguente violano la reggia pontificia del Quirinale e la occupano, scassinano le porte con l’aiuto di alcuni fabbri, sfrattando con mala grazia due cardinali [38] .

Gli antisabaudi e chi votava no se la vedeva brutta: a Napoli un contadino gridò Viva Francesco II! e fu ucciso all’istante. Nel trevigiano [39] un tale Angelo Tempesta osa gridare Evviva l’Austria! e subito è arrestato e incarcerato a Castelfranco. D’altra parte la stampa del regime liberal-massonico, spuntata un po’ ovunque e tutta al soldo dei nazionalisti, l’aveva scritto a chiare lettere: “Chi dice mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio dell'Italia. Chi dice no fa prova d’anima di schiavo nato al bastone croato. Il , lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, con la gioja nell’anima, con la benedizione di Dio! Il no, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria!” [40]

Naturalmente i verbali dei risultati e le schede sparirono subito e già nel 1903 non si trovavano più né presso le preture né presso i municipi [41] . Vediamoli comunque questi risultati truccati, regione per regione [42] .

I.                   Toscana (11-12 marzo 1860): 566.571. No 14.925. Annessionisti: 97,43 %  Contrari: 2,56 %

II.                Parma, Modena e Romagne (11-12 marzo 1860): 426.006. No 756. Annessionisti: 99,82 % Contrari: 0,17 %

III.             Napoli e province (21 ottobre 1860): 1.302.064. No 10.512. Annessionisti:  99,19 %  Contrari:  0,80 %

IV.            Sicilia (21 ottobre 1860): 432.053. No 667. Annessionisti: 99, 84 %  Contrari:  0,15%

V.               Marche (4-5 novembre 1860): 133.807. No 1212. Annessionisti:  99,10 %  Contrari:  0,89 %

VI.            Umbria (4-5 novembre 1860): 97.040. No 380. Annessionisti: 99,60 %  Contrari:  0,39 %

VII.         Veneto, Mantova e Udine (21-22 ottobre 1866): 641.758. No 69. Annessionisti: 99,98 %   Contrari:  0,01 %

VIII.      Roma e Lazio [43] (2 ottobre 1870): 133.681. No 1507. Annessionisti: 98,88 %  Contrari: 1,11 %

Ma ammesso (senza concederlo) che i plebisciti si fossero svolti in maniera del tutto regolare, vi è un argomento giuridico contrario ancora più forte: i vari decreti di annessione furono emanati dal governo subalpino sul presupposto che le province inglobate nel regno sardo si erano offerte a Vittorio Emanuele (lasciamo stare ora quanto spontaneamente) e che questi aveva dovuto accettarle. Ma chi può offrire ciò che non gli appartiene? E se è giusto non riconoscere neppure ai popoli toscano, emiliano, romagnolo ecc. la cosiddetta autodeterminazione, la quale è dottrina liberale conseguente all’infausto principio della sovranità popolare, parto velenoso della rivoluzione francese, in forza del quale la metà più uno fa la verità e il potere proviene non già da Dio bensì dal basso, ebbene quale legittimazione ad unirsi al Piemonte e a disporre di ciò che loro non apparteneva potevano mai avere quattro settari che con l’inganno e con la violenza avevano usurpato le legittime Autorità degli antichi Stati italiani [44] ? Senza dire che sia i preliminari di Villafranca dell’11 luglio 1859, sia il trattato di Zurigo (10 novembre 1859) che poneva fine alla seconda guerra risorgimentale, conservavano interi i loro Stati ai Duchi di Parma, di Modena e al Papa [45] .

D’altra parte, ammoniva Pio IX, “è noto all’universo mondo come in questi luttuosi tempi, gl’infestissimi nemici della Chiesa e di questa Santa Sede, resi abominevoli nei loro disegni e parlanti menzogna nella loro ipocrisia, conculcando ogni diritto umano e divino, si sforzino iniquamente di spogliarla del civil Principato, di cui essa gode; e ciò procaccino di conseguire […] con moti popolari, maliziosamente eccitati […]. In queste subdole e perverse macchinazioni, che Noi lamentiamo, ha parte precipua il Governo subalpino; dal quale oggimai tutti sanno quanto gravi e quanto deplorevoli offese e danni furono recati in quel regno alla Chiesa, a’ suoi diritti ed a’ suoi ministri” [46] . E qualche anno più tardi, dopo il sacco e l’occupazione militare piemontese di Roma, aggiungeva: “quel Governo, seguendo i consigli rovinosi delle sètte, ha compiuto contro ogni diritto, con la forza delle armi, la sacrilega invasione già da gran tempo premeditata di questa Nostra alma città e delle altre città che Ci erano rimaste dopo la precedente usurpazione [47] .” “Dalla stessa enormità del delitto veniamo tratti a sperare che finalmente sorgerà Dio e giudicherà la sua causa; tanto più vedendo essere Noi privi d’ogni umano soccorso per opporci a sì gran male [48] .

L’augurio del Beato Pio IX, formulato in quel tempestoso 1870 lo facciamo nostro, affinché l’alba del terzo millennio, secondo le promesse della Santa Vergine a Fatima, conosca la restaurazione e il trionfo della Chiesa e della Tradizione Cattolica su tutti i nemici.

Maurizio-G. Ruggiero

ELENCO ILLUSTRAZIONI SULL’ANTIRISORGIMENTO

1.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. I - H. Serie 1n. 70] - 1849 Venezia: Ferma! Ferma! Dálli al corvo. È un pretaccio austriacante; accoppalo. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

2.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. I - H. Serie IIa , pag. 179,  n. 2] - Verona. Combattimento dei Cacciatori Austriaci al cimitero di Santa Lucia. 6 maggio (1848). Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

3.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. III - H. Serie IVa , pag. 106,  n. 20] - Caricatura del 1848. La notte sparì. M. Manfredi dis. Bologna f.g. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

4.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. III - H. Serie IVa , n. 138] – A Giuseppe Garibaldi Primo cittadino d’Italia Eletto Presidente onorario della Società Atea. Venezia 20 settembre 1879. Ugo Casanuovo eseguì. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

5.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. III - H. Serie IVa , n. 170] – Battaglia di Lissa (20 luglio 1866). Pubblicazione del Giornale Il Buonumore. Da uno schizzo di un ufficiale della Regia Marina. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

6.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. III - H. Serie IVa , n. 277] – Soldati italiani che la unità della Patria suggellando col sangue caddero gloriosamente il XX settembre MDCCCLXX alla breccia di Porta Pia. Grande tavola allegorica. Lit. Fran.co Casanova. Bologna 1880. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

7.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. III - H. Serie IVa , n. 282] – Plebiscito romano. Roma. Grande allegoria storica. La rana cromolit. Bologna 1898. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

8.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. III - G. Serie IIa , pag. 161, n. 15] – Radetzky conte Joseph. Feldmaresciallo Dis. Melchiorre Fontana. Lit. Kirchmayr. Venezia 1849. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

9.     [Raccolta G. Fantoni - Vol. III - G. Serie VIIa n. 292] – Metternich. Wiehl pit. Eybl lit. Vienna. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento. Raccolta G. Fantoni.

10.           [Esposta in mostra a Vicenza] – Giovanni Selerio: La battaglia navale di Lissa. VII decennio del XIX secolo. Olio su cartone. Provenienza: Vicenza. Dono G. Fantoni. 1893. Vicenza. Museo di storia del Risorgimento.

11.           Plebiscito napoletano. Voto per l’annessione nella sala dell’Università di Napoli. Album. La Guerra d’Italia nel 1860-1861, a cura di Gustavo Strafforello. Torino 1862. Tomo II. Verona. Biblioteca Civica.

Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data. [Catalogo Biblioteca Civica di Verona 102. 9]

1.     1-2 [P. 13] Transito dal passo del Brennero di truppe austriache mandate in Italia. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

2.     1-2 [P. 32 sopra] La piazzaforte di Peschiera. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

3.     1-2 [P. 32 sotto] La piazzaforte di Mantova. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

4.     1-2 [P. 37] Sua Altezza Imperiale e Reale l’Arciduca Alberto Federico Rodolfo d’Asburgo (Vienna 1817 - Arco di Trento 1895). Figlio del celeberrimo Arciduca Carlo, grande antagonista del Bonaparte, pro zio dell’Imperatore Francesco Giuseppe, ebbe dapprima il comando delle truppe incaricate di liquidare la sedizione liberale del 1848; nello stesso anno militò fra le divisioni cesaree che vinsero in battaglia le forze della rivoluzione italiana guidate da Carlo Alberto. Governatore generale d’Ungheria dal 1851 al 1860, nel 1866, durante la terza guerra risorgimentale italiana, tenne il comando supremo dell’armata imperiale con il grado di Feldmaresciallo. Fu lo stratega e l’artefice della vittoria di Custoza (24 giugno 1866). Incisione di Colombo. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

5.     1-2 [P. 40 sopra] La piazzaforte di Legnago. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

6.     1-2 [P. 40 sotto] La piazzaforte di Verona. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

7.     1-2-3 [P. 52] Venezia. Partenza per Gradisca degli agitatori liberali e dei nazionalisti risorgimentali, detenuti nelle imperial regie carceri di San Severo. Incisione di Cosson e Smeeton. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

8.     1-2 [P. 73] Ludwig August von Benedek, Feldmaresciallo imperiale (Ödenburg 1804 – Graz 1881). Partecipe della vittoria del Radetzky a Novara nel 1849 nella prima guerra risorgimentale italiana, nella seconda del 1859 meritò la promozione a generale in seguito al valore dimostrato sul campo nelle battaglie di Melegnano e di San Martino. Nel 1866, comandante l’armata del Nord chiamata a fronteggiare i Prussiani, fu accerchiato dal von Moltke e sconfitto a Sadowa. Incisione di Cioffi. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

9.     1-2 [P. 88] Sassonia. Teatro di guerra austro-prussiano. Ingresso dei Prussiani in Lipsia. Incisione di Cosson e Smeeton. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

10.           1-2 [P. 89] Luogotenente generale cavaliere Raffaele Cadorna (Milano 1815 - Torino1897). Dopo aver combattuto sotto le armi sabaude nella prima guerra rivoluzionaria italiana del 1848 e successivamente in Crimea, nella seconda guerra risorgimentale del 1859 fu promosso colonnello a San Martino per meriti di guerra. Fu luogotenente generale nel 1866, durante la terza guerra risorgimentale, al comando della 1a divisione (2° corpo d’armata). Incaricato d’invadere i territori pontifici, occupò nel 1860 l’Umbria e le Marche e nel 1870 Roma. Ricevette per questo grandi onori dal regime massonico e fu deputato e senatore. Incisione di Gallieni. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

11.           1-2 [P. 100] Imbarco di volontari garibaldini sul Lago di Garda. Incisione di V. Mercier. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

12.           1-2 [P. 112] Il Feldmaresciallo von Benedek attorniato dal suo Stato Maggiore. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

13.           1-2 [P. 117] La vittoria dell’esercito imperiale su quello sabaudo a Custoza, il 24 giugno 1866. Il 4° battaglione del 49° Reggimento dell’esercito subalpino si dispone a quadrato per respingere una carica degli Ulani imperiali e difendere il Prìncipe Umberto. Evidente qui l’intento della propaganda nazionalista risorgimentale di trasformare una bruciante disfatta militare in una semi-vittoria. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

14.           1-2-3 [P. 132] Arrivo a Milano, il 26 giugno 1866, dei soldati imperiali fatti prigionieri dalle truppe sabaude a Custoza. Ancora una volta la propaganda risorgimentale mira a distogliere l’attenzione del lettore dalla disastrosa sconfitta militare patita dalle armi risorgimentali, agli ordini del borioso generale Alfonso La Marmora. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

15.           1-2 [P. 133] Prigionieri italiani nell’Anfiteatro di Verona, detto l’Arena, dopo la sconfitta di Custoza del 24 giugno 1866. Incisione di Centenari. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

16.            1-2-3 Prigionieri italiani nell’anfiteatro di Verona, detto l’Arena, dopo la sconfitta di Custoza del 24 giugno 1866. Incisione di Centenari. In Tuttitalia Enciclopedia dell’Italia antica e moderna. Milano. Sadea.  N. 13 del 26 febbraio 1964, pag. 419. [Migliore quella precedente, tratta dagli originali].

17.           1-2 [P. 180] Le truppe imperiali, vittoriose sul campo nella guerra del 1866, fanno saltare in aria le fortificazioni di Rovigo prima di sgombrarle, onde evitare che cadano in mano ai risorgimentali sconfitti. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

18.           1-2 [P. 196] Lago di Garda. La flottiglia austriaca si ritira sotto il tiro dei cannoni di Peschiera, in mano ai sabaudi, dopo essersi avanzata contro le cannoniere dei volontari. Incisione di Colombo. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

19.           1-2 [P. 217] Conte Emilio Faà di Bruno (Alessandria 1820 – Lissa 1866). Dopo aver combattuto da parte risorgimentale nella prima guerra d’indipendenza del 1848, ebbe il comando a Lissa (20 luglio 1866) col grado di capitano di vascello, della pirofregata Re d’Italia. Rimasta priva degli organi di comando e urtatasi con l’ammiraglia imperiale Ferdinand Max, la nave prese ad imbarcare acqua. Il Faà di Bruno, medaglia d’oro alla memoria, s’inabissò con la sua corazzata. Incisione di Cioffi. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

20.           1-2 [P. 220] Battaglia di Lissa (20 luglio 1866). Affondamento della pirofregata Re d’Italia. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

21.           1-2 [P. 221] Battaglia di Lissa. Esplosione e affondamento della cannoniera Palestro. Incisione di Gallieni. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

22.           1-2 [P. 228] Entrata dei Prussiani in Francoforte. Incisione di Cosson e Smeeton. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

23.           1-2 [P. 232] Wilhelm von Tegetthoff (Marburgo, Stiria 1827 – Vienna 1871). Durante la prima guerra risorgimentale del 1848-49, pose il blocco navale a Venezia, determinando la fine della sedizione liberalmassonica di Daniele Manin. Nel 1864 sconfisse nelle acque di Helgoland la flotta danese. Vice ammiraglio, comandò la squadra imperiale che trionfò a Lissa sulle navi sabaude. In seguito a quella vittoria Tegetthoff divenne membro a vita della Camera alta, poi comandante generale della Marina e nel 1869 fu nominato dall’Imperatore Consigliere Aulico della Corona. Album della guerra del 1866. Edoardo Sonzogno Editore. Milano-Firenze. Tipografia dello stabilimento di Giuseppe Civelli in Milano. Senza data.

61-2-3 - [1859 7/29] – Battello a vapore austriaco affondato nel Lago di Garda. 19 giugno 1859. Milano. Francesco Pagnoni editore. Disegno di Najmiller. Incisione su acciaio di Santamaria. Stampa di Falione. Verona. Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere. Lascito del Marchese Felice Carlotti.

EX LIBRIS

¨     1-2-3 [Radetzky in trionfo] Stampa allegorica dedicata al Maresciallo Radetzky e alla controrivoluzione vittoriosa sulle sedizioni del 1848, con doppio richiamo a Milano e a Verona (e al congresso delle Potenze Europee che vi si tenne nel 1822). Verona era all’epoca il perno del Quadrilatero, ossia di quel formidabile sistema di fortezze, idoneo a sbarrare il passo a qualsiasi invasore proveniente da Occidente. La statua del Maresciallo Radetzky troneggia su una colonna trionfale, sopra la quale sono i ritratti di diversi imperatori d’Austria da Giuseppe II a Francesco Giuseppe I. Da Pierre Broué e Hubert Desuages. La rivoluzione. Dalle rivoluzioni contadine alle rivoluzioni proletarie. Arnoldo Mondadori editore. Milano 1979.

Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni

10. 1-2-3 [9.d.9] - Battaglia di San Martino (24 giugno 1859). L’artiglieria della terza divisione all’attacco finale di San Martino. Stampa in bianco e nero da un dipinto di Sebastiano de Albertis. Calzolari e Ferrario fotolitografia. Milano. R. Armenise editore. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

11. 1-2-3 [9.c.29] - Battaglia di Custoza del 24 giugno 1866. Panorama delle posizioni di Custoza, Belvedere e Bagolina preso dalle alture tra pianure e Santa Lucia. Prospetto delle forze combattenti sul Belvedere (III corpo Della Rocca). Piano dell’ultimo combattimento del Belvedere (8a divisione Cugia, 9a divisione Govone, 1a compagnia III divisione Boni). Raffigurazione dell’episodio del capitano Perrone di San Martino e l’ultima difesa del Belvedere. Raffigurazione dell’episodio dell’ultima difesa di Monte Croce: il sergente Carlo Roari di Melegnano del 6° battaglione bersaglieri dell’8a Divisione, salva la vita al suo capitano cavaliere Negri, già ferito e circondato dai soldati imperiali. Ritratti del capitano Giovanni Negri del 6° bersaglieri ora defunto e della medaglia d’oro, cavalier Davide Giolitti, maggiore del 6° bersaglieri ora maggior generale in servizio. Disegno e incisione di Cenni. 2a edizione del 1889. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

12.           1-2-3 [2.142] - Soldati austriaci la sera del 6 ottobre 1866 in Piazza Bra. I soldati dell’Imperatore sedano le provocazioni arrogantemente scatenate dai nazionalisti risorgimentali alla vigilia della cessione del Veneto, già in corso, dall’Impero a Napoleone III e da questo ai Savoia, a guerra ormai finitada un pezzo. Da un dipinto di Ercole Calvi. Fotografia in bianco e nero di Maurizio Lotze. Verona. IX esposizione artistica del 1867. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

13.            1-2-3-4-5-6 Morte di Carlotta Aschieri trafitta dal ferro austriaco la sera del 6 ottobre 1866 nel caffè Zampi, odierno bar Motta, di Verona. Si trattò in realtà della morte accidentale di una donna, causata dalle provocazioni tricolorate scatenate a guerra finita dai liberali italiani e represse dagl’Imperiali, provocazioni e contegno dei “patrioti” che furono condannati anche dal Gabinetto sabaudo di Firenze. Prein int. Penuti Verona. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

14.           1-2-3-4 [9.c.35] – Il quadrato di Villafranca. 24 giugno 1866. Stampa a colori tratta da un dipinto di Sebastiano de Albertis conservato a Milano, al Museo del Risorgimento Nazionale. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

15.           1-2-3 [9.c.64] - Caricatura contro Verona che, ancora nel 1866, non vuole ribellarsi ag’Imperiali e passare coi nazionalisti risorgimentali, atteggiamento in controtendenza rispetto al nazionalismo risorgimentale che si imputa alla stretta sorveglianza della polizia austriaca. Dice l’Italia a Verona: Perché non vieni avanti? Vedi le tue sorelle? E Verona risponde: Purtroppo lo farei, ma finché quel signore non se ne va è impossibile fare un passo. Naturalmente la strada dei risorgimentali rappresenta il sol dell’avvenire ed è pomposamente intitolata Via del progresso recante insegne a pro della pubblica istruzione; quella in cui si trova Verona e l’occhiuta spia degli Asburgo, è denominata Via degli immobili. Qui, secondo il pregiudizio illuminista, campeggiano soltanto gli avvisi sacri dei bigotti e degl’ignoranti. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

16.           1-2-3 [9.c.74] – La lettura del verdetto che condanna a morte Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, in Piazzetta San Marco a Venezia, condanna subito commutata nel carcere duro nella fortezza dello Spielberg, rispettivamente per 15 e 20 anni, dei quali scontarono effettivamente soltanto otto. La sentenza fu pronunciata nel 1820, in seguito agli atti di terrorismo compiuti materialmente da loro e dalla setta dei carbonari, alla quale essi appartenevano e a causa dei quali furono uccisi una ventina di soldati dell’Imperatore, mentre altri restarono feriti. Pellico e Maroncelli furono liberati anticipatamente nel 1830. Pellico in seguito non s’interessò più di politica, si convertì al cattolicesimo (seppure deformato dal clima romantico dell’epoca) e negli ultimi anni di vita si legò ai Marchesi di Barolo, famiglia risolutamente avversa al liberalismo e anzi di sentimenti legittimisti e reazionari. Di più dura cervice anticlericale il Maroncelli, il quale esulò dapprima in Francia e poi negli Stati Uniti, Paesi che erano il paradiso dei settari, dei nemici della Chiesa e dei rivoluzionari di tutte le risme, anarchici inclusi. Qui, colpito da cecità, morì pazzo. Stampa a colori di I. Cenni. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

17.            1-2-3 [9.c.16] - Ultimi istanti di vita di Pietro Derossi di Santa Rosa (Torino 1805 – ivi 1859). Ministro dell’agricoltura e del commercio, per aver votato le leggi Siccardi, leggi di spirito anticlericale che privavano la Chiesa e gli Ordini religiosi dei loro beni legittimamente acquisiti, muore senza sacramenti, avendogli l’Arcivescovo di Torino concesso di accostarsi alla confessione, ma non al viatico. Il Derossi, muore così scomunicato, nonostante le tardive suppliche sue e della moglie. Milano. Disegno di Vajani Legros e Marazzani editori. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

18.            1-2-3 [12.c.136] - Pio IX in trono. Roma 23 agosto 1871. A perenne ricordo del singolare e grande avvenimento che in questo dì si compì nel magnanimo Pio IX, Pontefice Massimo, superando gli anni di pontificato dei suoi antecessori e di San Pietro in Roma, questa fedele immagine circondata da figurazioni simboliche alla di lui vita e virtù si pubblica. Stabilimento della pia beneficenza. 2a edizione 1872. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

19.            [E 2 – 9.b.37] – Conte Joseph Radetzky von Radetz (Třebnice, Boemia 1766 – Milano 1858). Feldmaresciallo Imperiale. Ritratto. Litografia di J. Sack. 1854. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto disegni e stampe

20.            1-2-3 [12.a.206] – Conte Joseph Radetzky von Radetz (Třebnice, Boemia 1766 – Milano 1858). Governatore generale del Regno Lombardo Veneto. Feldmaresciallo austriaco e russo con tutte le sue decorazioni. Schopf Giuseppe incisore. Disegnato dal vero sulla pietra da Gross. Impresso e pubblicato dalla litografia Schöpf in Verona. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

21.            1-2-3 [12.b.111] – Francesco Giuseppe I, Imperatore d’Austria (Schönbrunn 1830 – ivi 1916). Di forte spirito militaresco, salì al trono appena diciottenne, il 2 dicembre 1848. Il suo lungo regno vide la sistematica aggressione della rivoluzione contro l’Impero, del quale aveva decretato la fine: subì così la perdita della Lombardia nel 1859, del Veneto nel 1866 e la sconfitta e la perdita dell’egemonia nell’area tedesca a vantaggio della Prussia, quindi la prima guerra mondiale scatenata proprio per farla finita con l’ultimo Stato sacrale, erede dell’Impero romano e cristiano. Nel 1867 Francesco Giuseppe era riuscito a comporre il dissidio tra le maggiori nazionalità rimaste nell’Impero, Austria e Ungheria. La sua esistenza fu carica di lutti e di croci, da lui sopportate con mirabile fortezza: nel 1853 subì l’attentato di un sarto ungherese, Libenyi, di sentimenti nazionalisti; nel 1867 il fratello Massimiliano cadde fucilato dai rivoluzionari in Messico; nel 1882 un nuovo tentativo di assassinare l’Imperatore, elaborato dall’irredentista italiano Guglielmo Oberdan, fu sventato; nel 1889 l’unico figlio maschio di Francesco Giuseppe ed erede al trono imperiale fu trovato, sembra suicida con una delle sue amanti, a Mayerling (Rodolfo si era legato ai più nefandi circoli settari e sembra che la sua morte sia stata decretata perché non aveva mantenuto la promessa di uccidere il padre); nel 1898, la moglie di Francesco Giuseppe, la fatua imperatrice Elisabetta, maniaca dei viaggi e dei divertimenti e con nelle vene il sangue tarato dalla follia dei Wittelsbach, la quale si era separata da lui fin dal 1867, cadde a Ginevra, sotto lo stiletto dell’anarchico italiano Lucheni; nel 1914 toccò infine all’erede al trono, Arciduca Ferdinando e alla moglie, dei quali erano noti i sentimenti di fedeltà alla tradizione ed antiliberali, venire uccisi dalla mano del nazionalista serbo Gavrilo Prinzip, armata dalle sette. Mentre si apriva lo scenario tragico della conflagrazione mondiale, pochi mesi dopo l’Italia risorgimentale, legata dalla Triplice Alleanza alla Germania e all’Impero, li tradiva, passando di campo con le democrazie massoniche franco-anglo-americane e, di lì a poco, il vecchio e stanco Imperatore si spegneva. Realizzazione di A. Einsle. A. Dauthage litografo. Tipografia Joseph Stoufs. Vienna. Edizioni F. Paterno. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

22.            1-2-3 [12.b.98] – L’Imperatore Francesco Giuseppe I in visita a Verona con la consorte Elisabetta Amalia. Con i ritratti dei Sovrani, dei Principi della dinastia d’Asburgo ancora fanciulli, fra l’aquila e l’arma imperiale, la Corona Ferrea e gli emblemi del Regno Lombardo-Veneto. In Verona ospite avventurata a Francesco Giuseppe ed Elisabetta Amalia spargenti sui loro passi grazie e beneficenze, festose e riconoscenti la Lombardia e la Venezia si danno convegno. Disegno di Focosi. Milano. Litografia Corbetta. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.

 1-2-3 [11.c.293] – Francesco Giuseppe d’Austria. Ritratto giovanile. Verona. Biblioteca Civica. Gabinetto stampe e disegni.



[1] Naturalmente agli alfieri della rivoluzione patriottarda importavano poco o nulla le doglianze e i diritti dei Prìncipi spossessati. Il Granduca Leopoldo II di Toscana, costretto da una sedizione di mazziniani e dall’abbandono della truppa (comprata dal Governo di Torino e dai liberali toscani) a lasciare Firenze, in un proclama lanciato dal suo forzato esilio in Ferrara (1° maggio 1859) e poi da Vienna (21 e 28 maggio 1859) scriveva: “Già in Firenze, la mattina del 27 aprile, ho solennemente protestato dinanzi i componenti il Corpo diplomatico, accreditato presso la mia persona, contro codeste violenze, dichiarando nulli, non avvenuti, e di nessun valore gli atti stessi: e quest’oggi, primo maggio, in Ferrara protesto nuovamente e solennemente contro quella violenza usatami, e ripeto la dichiarazione, allora formalmente espressa, della nullità degli atti suddetti, i quali apertamente tendono a rovesciare uno stato di cose, sanzionato dal trattato di Vienna del 1815 […]”. E il 21 maggio da Vienna […] Io era allora ben lontano dal prevedere che un Sovrano, al quale mi congiungono legami di parentela, ad onta dei sussistenti trattati e del diritto internazionale, senza che dal canto mio fosse avvenuta una provocazione, potesse usurpare il supremo potere ne’ miei Stati, col dichiararsi protettore della Toscana e nominare un commissario regio per governare il Granducato. Mi vedo quindi costretto a protestare contro questo atto d’ingiustizia. […]”. E il 28 maggio, sempre da Vienna: “Nuovi avvenimenti mi costringono a rivolgermi per la terza volta alle Potenze amiche, che sottoscrissero il trattato di Vienna del 1815 […]. Violando i trattati in vigore ed il diritto delle genti […] un corpo di truppe francesi sbarcò nei miei Stati, ed un Principe della famiglia imperiale di Francia si è arrogato i diritti sovrani, col disporre de’ miei sudditi per formarsi un esercito. Questi fatti, coi quali si dispone de’ miei sudditi e delle mie truppe, costituiscono delitti flagranti contro tutte le leggi divine ed internazionali […]”. Parimenti il 9 giugno 1859 Luisa Maria, duchessa di Parma, affidato il potere a trenta notabili, si ritira in uno Stato neutrale dove si trovavano i suoi figli, dei quali ha la reggenza e “i cui diritti dichiaro di riserbare pieni ed illesi, fidandoli alla giustizia delle alte potenze ed alla protezione di Dio”, pur di non essere costretta alla guerra contro l’Impero come reclamano i liberali. Anche Sua Altezza Reale Francesco V, lascia l’11 giugno il Ducato di Modena, per non esporre i suoi sudditi ad una guerra di difesa dall’aggressore subalpino, che occupa già buona parte dei suoi Stati aiutato dalla canaglia liberale alleata del Piemonte; si allontana dalla capitale seguìto praticamente dall’intero suo esercito il quale, fedele al giuramento prestato, non vuole separarsi dal suo Prìncipe e lo segue nell’esilio; protesta per i suoi diritti di Sovrano calpestati e istituisce una reggenza “composta di capifamiglia e padroni di negozio dai 25 ai 50 anni”. Cfr. La Civiltà Cattolica. 1859. Anno X. Serie IV. Voll. III, pp. 110-113.

[2] L’Unità Cattolica, 3 agosto 1866. In Bozzini Federico. 21-22 ottobre 1866: la storia di un plebiscito truffa. In Quaderni Veneti di coscienza etnica, n. 2. A cura del Centro Studi Agostino Bertoldo. Verona. Senza data. P. 22.

[3] In Lombardia la persecuzione anticattolica non si fece attendere. Il 3 settembre 1859 a Bergamo il vescovo, Monsignor Pietro Luigi Speranza, richiesto di una messa in suffragio dei caduti di parte piemontese, sdegnato degli atti sacrileghi dei liberali durante la Santa Messa (insulti al presule e a Pio IX, bestemmie contro Dio e contro i Santi, recita dal pergamo della chiesa da parte di alcuni “patrioti” di un’orazione ecc.) decretò l’interdetto, proibendo ogni funzione religiosa nella stessa chiesa fino a nuovo avviso. I bricconi del partito liberale corruppero allora con vino e denaro alcuni facinorosi che, pugnali alla mano, diedero l’assalto al palazzo vescovile, rompendone porte e finestre e saccheggiandolo. Ma la canaglia cercava il vescovo stesso, cui dava dell’austriaco ed egli “si presentò col volto ridente e sereno alla presenza di tutti. […] Ma la turba […] insultò il Vescovo nei modi più villani e più sacrileghi, con sputi, con urti e con pugni nel volto; gli fu stropicciata la bandiera piemontese sulla fronte, di che porta ancora una leggera ferita. Perfino uno stilo balenò dinanzi a lui. […] Vi fu chi gli gridò in viso: Raccomandati ora alla tua Madonna, della quale Monsignore è devotissimo”. Solo l’intervento (volutamente tardivo) dell’Intendente della provincia e di un colonnello francese valsero a salvargli la vita. A Milano il 22 settembre alcuni faziosi prezzolati dal governo furono mandati a lanciar sassi e insulti e a fracassare le finestre di alcuni istituti religiosi che non erano stati illuminati, come il governatore piemontese aveva preteso, per l’arrivo in città di una delegazione di liberali delle Romagne, terre di San Pietro, giunta a rappresentare a Vittorio Emanuele la volontà delle Romagne (in realtà la loro) di aderire al regno costituzionale sardo. A Gazzolo, nel cremonese, un letterato da strapazzo entra in chiesa, strappa il crocifisso dall’altare, mette al suo posto il tricolore e recita dal pulpito un suo discorso patriottico; e lo stesso sta per accadere a Milano ai funerali di Daniele Manin: per evitare che il solito nazionalista s’impossessi del pulpito, il parroco stesso si assoggetta a leggere la commemorazione agli astanti (La Civiltà Cattolica. 1859. Anno X. Serie IV. Vol. IV, pp. 105-108 e 249, 251).

[4] E quindi con l’impiego di “tutti i mezzi onde può aiutarsi un Governo dispotico. […] Ella è cosa oggimai esploratissima che una votazione fatta sotto l’influenza operosa di un Governo […] è pressoché impossibile che riesca a rovescio di ciò che vuole il governo stesso” (La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, p. 15).

[5] In Toscana ad esempio, alla vigilia della consultazione “editti, bandi, gride del Governo e dei suoi cagnotti tappezzavano le strade, le botteghe e fino le porte delle chiese, in quella che giornali, opuscoli, fogli e foglietti in un senso solo inondavano le città ed il contado” (La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, p. 16). Si trattava insomma di un vero e proprio monopolio dell’informazione. Per contro La Nazione di Firenze si distingueva nel vilipendere ogni legittimista o antisabaudo, definendolo “nemico della patria, partigiano dell’Austria”, idem p. 107.

[6] “Ricordino essi [i Parroci e i Cooperatori dei nostri villaggi] che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l’onore delle Venezie e dell’Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevadrice la suddetta influenza clericale, e contenere l’offeso sentimento nazionale dal prendere contro i preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione”. Così Il Giornale di Vicenza. In Beggiato Ettore. 1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia. Editoria Universitaria. Venezia 1999. P. 18.

[7] Cfr. La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, p. 16. Il Governo toscano (si noti l’ipocrisia rivoluzionaria) “considerando che, mentre la Toscana è richiamata a decidere per mezzo del suffragio universale de’ suoi futuri destini, è conveniente di rendere pienamente libera la discussione in materia politica, decreta: che ritorna libera la fondazione e pubblicazione dei Giornali, Scritti ed Opere, anche non periodiche, concernenti materie politiche”, idem p. 106.

[8] “I nobili ed i possidenti fedeli e cattolici essendo quasi tutti dovuti uscire dal paese, la classe numerosissima dei contadini restò alla balìa dei pochi possidenti e nobili devoti al Piemonte; i quali non perdonarono ad insinuazioni, a comandi, a minacce e perfino a scacciamenti dalle proprie terre, perché i loro dipendenti votassero per l’annessione” ibidem. Un problema di coscienza si poneva altresì per i militari toscani, chiamati al referendum da Re Vittorio, senza che prima fossero sciolti dal giuramento di fedeltà ai Savoia che si era loro imposto (cfr. La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, p. 107).

[9] La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, p. 108. Il compenso per la perduta sovranità fu la concessione all’Etruria da parte di Vittorio Emanuele, all’atto di ricevere solennemente i risultati del plebiscito, dei “benefizi dell’autonomia amministrativa”, ibidem, p. 108. Ovvero: da Stato del Granduca a Stato dei Prefetti.

[10] Le quattro Legazioni, cioè Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì, erano così denominate per il fatto che in ciascuna di esse risiedeva un Legato pontificio.

[11] Sono le parole del Papa del tempo, il Beato Pio IX, pronunciate nella Lettera Apostolica Cum Catholica Ecclesia del 26 marzo 1860, il quale lamenta la cecità del Gabinetto liberale piemontese che si comportava “come aspidi sorde turandosi le orecchie” di fronte alle sacrosante recriminazioni della Santa Sede. “Ma nell’atto che Noi, spinti da una triste necessità, adempiamo con dolore a questa parte del Nostro ufficio,” — l’allusione del Papa è alla scomunica contro mandanti ed esecutori dell’usurpazione delle Legazioni tramata da Re Vittorio — “non siamo punto dimentichi, che Noi sosteniamo al tempo stesso le veci di Colui, il quale non vuole la morte del peccatore, ma vuole che si converta e viva […] Perciò nell’umiltà del cuor Nostro con ferventissime preghiere imploriamo e supplichiamo senza intermissione la misericordia di Lui, affinchè illumini propizio con la luce della sua divina grazia tutti coloro, contro i quali siamo costretti ad usare la severità delle pene ecclesiastiche”.

[12] Il Marchese R., che nei suoi latifondi tiene al proprio servizio un qualche migliaio di contadini, distribuì una razione di vino e due paoli a testa, con minaccia però di cacciar tosto dai suoi poderi chiunque si fosse astenuto dal voto. […] Dove però non s’è adoperata la corruzione e la violenza […] un solo contadino non s’è mosso a dare la scheda. Il signor Intendente Tanari […] ai giornalieri […] li chiamò a votare ed io vidi […] un 500 uomini parte in grembiule, parte con la zappa e il piccone, alcuni sciancati e saltellanti, altri curvi per vecchiezza, attraversare la piazza e recarsi al Castello per ricevere dal signor Intendente il premio della loro obbedienza” (La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, pp. 348-349).

[13] Idem, p. 349.

[14] Idem p. 349. L’invito del Rettore era al plebiscito, ma quell’accenno nazionalista al tradimento della patria, non dà a dubitare su che cosa dovessero votare i poveri studenti. “Il Rettore dell’Università […] invitò con circolare, e guidò egli stesso alla sala dello scrutinio il corpo degli studenti già prima ammoniti che il mancarvi era un mostrarsi traditore della patria. Tre soltanto dei giovani si astennero; altri, posti a questa tortura, s’avvisarono di provvedere alla coscienza col gettare nell’urna una scheda bianca” ibidem.

[15] Luigi Carlo Farini in Emilia e Carlo Boncompagni di Mombello in Toscana. Questo triste figuro era ambasciatore sardo a Firenze accreditato presso il Granduca e offriva asilo e copertura diplomatica nello stesso palazzo della legazione piemontese ai liberal-massoni toscani che cospiravano contro il loro legittimo Prìncipe. Boncompagni arrivò addirittura ad arringare dal balcone una torma di rivoluzionari, ringraziandoli del loro contributo alla sedizione e, naturalmente, nella sua qualità di commissario di Vittorio Emanuele, prese ad usurpare le funzioni dell’antico governo armando una guardia nazionale, convocando un’assemblea di pretesi rappresentanti della Nazione (votati da meno del 2% della popolazione) moltiplicando decreti e atti intesi a consolidare la rivoluzione. La sua condotta fu giudicata tanto scandalosa e disonorante che anche nella liberalissima Camera dei Lords britannica vi fu chi sostenne che Boncompagni “avrebbe potuto legittimamente essere dal Granduca di Toscana fatto impiccare per la gola alle porte del suo palazzo” (La Civiltà Cattolica. 1859. Anno X. Serie IV. Vol. IV, pp. 111-112; cfr. La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, p. 111). Proprio in Toscana Bettino Ricasoli, Presidente del Consiglio dei Ministri del governo provvisorio toscano (in attesa del plebiscito che doveva aggregare quelle province al Regno di Sardegna) per stroncare la crescente nostalgia popolare per il Granduca e in odio agli antichi emblemi e vessilli mediceo-lorenesi, emanava ai Prefetti una circolare, in data 1° settembre 1859, in forza della quale “chiunque innalzasse una bandiera che non sia la bandiera nazionale italiana, oramai fatta nostra, troverà nell’autorità ferma e severa repressione” (La Civiltà Cattolica. 1859. Anno X. Serie IV. Vol. III, p. 749).

[16] In Emilia il dittatore Farini (molto prima che si celebrasse il referendum sulla forzata unione al regno subalpino) decreta come primo atto l’estensione delle famigerate leggi Siccardi sulla soppressione degli ordini religiosi e sull’alienazione dei relativi beni, particolarmente di quelli della Compagnia del Gesù. Con editto del 30 settembre 1859 Farini ordina alle truppe che avevano seguito nell’esilio il Duca Francesco V, legate da giuramento di fedeltà al loro Sovrano, di rientrare disarmate in Modena, pena la perdita della cittadinanza e dei diritti civili e politici; per i militi che rientreranno in armi dispone l’arresto e la condanna per i “delitti di lesa maestà e di alto tradimento”! La lealtà al legittimo Prìncipe anche nell’avversa sorte è denominata tradimento dal fellone Farini (cfr. La Civiltà Cattolica. 1859. Anno X. Serie IV. Vol. IV, pp. 114 e 262). “Ai diletti figli, generale Agostino Saccozzi e componenti l’esercito del Serenissimo Duca di Modena” il 19 maggio 1860 Pio IX s’indirizzava con un commosso Breve di saluto e di encomio nel quale diceva di aver “personalmente ammirato la fedeltà e l’affetto verso il vostro eccelso Prìncipe. […] Preghiamo sempre col maggior fervore il Dio delle virtù, affinché rimuova dai confini d’Italia il suo sdegno e tratti con le nostre terre secondo la sua misericordia” (La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, pp. 631-632).

[17] La Civiltà Cattolica (1866. Anno XVII. Serie VI. Vol. VII, pp. 385-401) riassume in quattro cause le ragioni della doppia sconfitta dei risorgimentali nel 1866: la spavalderia; la scarsa coesione fra truppe di tanti Stati diversi unificate con la forza; il nazionalismo caro alle sètte ma certo non sentito dai soldati; e, soprattutto, l’ira divina. E mostra come mentre l’Imperatore aveva indirizzato ai suoi popoli un nobilissimo bando di guerra, chiedendo pubblicamente il divino soccorso e mentre perfino il Re di Prussia, protestante, lo aveva invocato nel suo manifesto, prescrivendo anzi ai suoi popoli un giorno di digiuno e di pubbliche preghiere, nessun riferimento a Dio si trova nel proclama del re Vittorio, le cui Camere alla vigilia della guerra erano tutte comprese nel votare la soppressione degli ordini religiosi e nel vomitare bestemmie contro la Chiesa e il Papa.

[18] Feldmaresciallo Arciduca Alberto. N. 33 Ordine del comando d’armata. Verona lì 21 giugno 1866. Soldati![…] Di nuovo l’assalitore vicino stende la mano rapace per impadronirsi di questa gemma, la più bella della Corona del Nostro Augusto Monarca, gemma ora affidata alla vostra custodia, alla vostra difesa. L’onore dell’Armata e quello di ognuno fra noi è strettamente legato alla conservazione di questo pegno. Io non potrei darvi prova più convincente della fiducia che in Voi ripongo, se non dichiarandovi apertamente che il nemico è potentemente armato, e che ci supera di molto nella forza numerica. Sia pure difficile la nostra missione; essa è però degna di Voi! […] In qualsiasi evento, nulla potrà far vacillare il vostro ardente coraggio, nulla far scemare in Voi la fiducia di un finale trionfo della nostra causa. Il nostro avversario, accecato da facili successi altrove ottenuti a mezzo di seduzioni, di tradimenti e d’infedeltà, non conosce nella sua presunzione alcun limite alla propria rapacità, e sogna d’inalberare le sue bandiere sul Brennero e sulle alture del Carso; ma in ora egli ha a cimentarsi in campo aperto con una Potenza, che per sostenere i proprii diritti è risoluta, o di vincere, o di cadere gloriosamente. Il vostro eroismo ricordi di bel nuovo al nemico, quante volte ebbe egli a fuggire innanzi al vostro valore. Su adunque, Soldati! L’Imperatore e la Patria ci guardano fiduciosi ed i nostri congiunti compartecipano con entusiasmo alle nostre sorti. Alla Guerra! Animosi nel nome di Dio, facendo echeggiare il grido: Viva l’Imperatore!  Il testo del proclama si può reperire in Gazzetta Uffiziale di Venezia. Mercoledì 27 giugno Anno 1866 – n. 146.

[19] Nonostante il penoso tentativo della stampa liberale di contrabbandare come un semplice insuccesso (o addirittura come una semi-vittoria) la sconfitta sabauda a Custoza, l’orgoglioso nazionalismo risorgimentale subì nel 1866 una cocente umiliazione non solo sul terreno militare, ma anche su quello diplomatico. L’Articolo 1 della Convenzione tra la Francia e l’Impero a proposito delle Venezie recitava infatti: “Sua Maestà l’Imperatore d’Austria cede il Regno Lombardo-Veneto a Sua Maestà l’Imperatore dei Francesi, che lo accetta”.

[20] Così testualmente il preambolo di quel trattato. Cfr. Beggiato Ettore, op. cit. p. 43. Il testo della pace di Vienna fra Italia e Impero può leggersi su La Civiltà Cattolica. 1866. Anno XVII. Serie VI. Vol. VIII, pp. 369-373.

[21] Cfr. Beggiato Ettore, op. cit. pp. 52-53. L’art. 5 in particolare stabiliva espressamente: “Il suffragio è dato per schede a scrutinio segreto” e l’art. 9: “Chiuso lo scrutinio segreto del giorno 22, le urne suggellate ed i verbali a termine dei precedenti articoli saranno dal Presidente e da due almeno dei membri pel seggio accompagnati alla Pretura, nella cui giurisdizione è compreso il Comune, e consegnati al pretore, il quale insieme con essi e pubblicamente fa lo spoglio dei voti redigendone verbale”.

[22] L’annessione regalò al Veneto le stesse meraviglie che la rivoluzione risorgimentale aveva già prima generosamente accordato alle altre province liberate. Fra le beatitudini elargite: l’abolizione del Concordato vigente fra l’Impero e la Santa Sede; la cessazione della competenza dei tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale; la soppressione degli ordini religiosi; l’introduzione del placet e dell’exequatur regio in materia religiosa; la persecuzione al clero; l’immoralità trionfante; il raddoppio delle imposte; “l’inondazione di carta moneta, colà [in Veneto] sconosciuta fino a questi giorni ed ora introdotta con corso obbligatorio” (La Civiltà Cattolica. 1866. Anno XVII. Serie VI. Vol. VII, p. 488). D’altronde già nel luglio del 1866, molto prima dunque del referendum, il Marchese Gioacchino Pepoli, Commissario regio a Padova, sospese dall’insegnamento 18 professori dell’Università sgraditi ai risorgimentali e alla massoneria, promuovendone invece altri 8 “che coi fatti e scritti loro si erano mostrati degni di sedere al banchetto della nazione” (ibidem). Altri Commissari regi furono: l’onorevole Antonio Mordini per Vicenza; l’onorevole cavaliere Antonio Allievi per Rovigo; il Marchese senatore Rodolfo D’Afflitto per Treviso; il commendatore Quintino Sella per Udine. Per Verona si rimanda alla nota 27. Il 7 agosto 1866 un decreto introduceva “nelle province liberate dalla dominazione austriaca” (sic!) l’eguaglianza di tutte le fedi e il relativismo religioso. ”Resta dunque inteso che i Giudei ed i settari d’ogni colore abbiano a godersi una pienissima libertà; ma non era da sperare che i Framassoni dominanti potessero farne partecipi anche i cattolici. Oh! Per questi non vi sono mai catene e bavagli che bastino e lo Stato deve ingerirsi nei più minuti particolari dell’esercizio del culto religioso [exequatur e placet ne sono la prova!]. La Chiesa Cattolica vi sarà tenuta in strettissima schiavitù; sempre, ben inteso, in omaggio al famoso principio: Libera Chiesa in libero Stato” (idem pp. 620-621). Pochi giorni dopo il plebiscito il Cardinale Patriarca di Venezia, che pure aveva accettato di benedire il tricolore, vide così contraccambiata la sua politica di conciliazione: “mentre però stava per uscire di palazzo, una moltitudine di ribaldaglia si preparava a fargli onta con urla e fischi. […] Questo solo fatto […] basta a chiarire quale speranza possa avere il clero di ammansire la setta! [Infatti, in Veneto, giorni appresso avvenne che] tra i Gendarmi, in forma di rei, fossero condotti alle pubbliche carceri, accompagnati dalle urla, dai fischi, dagl’insulti dell’infima canaglia, onorandissimi Canonici, parroci e sacerdoti, strappati alle loro chiese, senza che potesse poi allegarsi contro di loro un indizio tenuissimo di colpa. […] Queste cose mossero a nausea perfino l’Opinione giudaica: la quale fece l’apologia del clero veneto” (idem p. 498).

[23] Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione. Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa essa contenesse” (La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, p. 108). Questi bei lumi dispensavano i patrioti ai loro lavoranti per rischiarare le menti della classe lavoratrice, degni continuatori dei famigerati lumi del giacobinismo e della rivoluzione francese.

[24] Cfr. La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, pp. 16-17.

[25] E questo si chiamava dai liberali “l’unanime suffragio del popolo in favore dell’annessione”, altra volta definito “inappellabile sentenza”, idem p. 108.

[26] Così fu fatto a Malo, nel vicentino.

[27] Il capataz risorgimentale di Verona, già rappresentante imperiale, ma rapidissimo a mutar casacca, il patrizio cavalier Edoardo De Betta, il 12 ottobre 1866, dunque dieci giorni prima della celebrazione del referendum, scrive minacciosamente che fin “da tal giorno [il 12 ottobre appunto] la Chiesa ha obbligo di non più invocare la benedizione divina sopra un governo straniero e legalmente cessato”. In Bozzini Federico. 21-22 ottobre 1866: la storia di un plebiscito truffa. In Quaderni Veneti di coscienza etnica, n. 2. A cura del Centro Studi Agostino Bertoldo. Verona. Senza data, p. 32. A titolo d’esempio: il 18 ottobre 1866 la Deputazione Comunale di Cerea (VR) invita i Reverendi Parroci a predicare dai pulpiti in favore dell’unità risorgimentale. “La patria” — scrive la Deputazione — gliene sarà riconoscente e molto più se mercé la sua assistenza la votazione di questa popolazione riuscirà unanime per l’annessione al grande Regno Italiano” (Bozzini Federico, op. cit. p. 34).

[28] Trattasi di Don Benassuti. “L’Arciprete di Cerea, borgo di 4.500 anime, a causa dell’odio politico dei malvagi, per provvedere alla propria incolumità, dovette abbandonare la parrocchia e seguire l’esercito austriaco”. Così il Vescovo di Verona, cardinale di Canossa. L’episodio è riportato da Bozzini Federico, op. cit.  p. 29.

[29] “Il popolo delle nostre campagne è avvezzo da lungo tempo ad adorare il prete, a rispettare il padrone […]. Ed oggi chiamato ad entrare nel primo periodo della nuova vita, oggi egli vi entra portando seco il fardello della propria ignoranza, trascinando dietro sé il fantasma della propria idolatria. Una parola che a lui dirigessimo direttamente sarebbe dunque sprecata”. Così il quotidiano L’Arena del 13 ottobre 1866 (in Bozzini Federico, op. cit. p. 33) giornale il quale deriva il suo nome non già dal glorioso anfiteatro romano, emblema della città di Verona, come sulle prime si potrebbe pensare, bensì è eponimo della loggia massonica denominata appunto Arena.

[30] Così a Cerea (VR). Cfr. Federico Bozzini, op. cit. p. 38.

[31] Era questo il quesito referendario per l’annessione delle province napoletane. Quasi identico quello proposto ai siciliani. In Toscana ed Emilia suonava invece così: Volete l’unione alla monarchia costituzionale di Re Vittorio Emanuele II? A umbri e marchigiani si domandava: Volete far parte della monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele? In Veneto invece la formula adotta era la seguente: Dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo monarchico-costituzionale del re Vittorio Emanuele II e de’ suoi successori.

[32] Il 27 ottobre 1866 il Presidente della Corte d’Appello di Venezia, Tecchio, proclama dal palazzo ducale di Venezia i risultati del plebiscito-farsa veneto, fra cannonate, applausi dei liberali, campane suonanti a distesa e sventolio di tricolorate bandiere. “Nessuno fu stupito dell’unanimità” commenta non senza ironia La Civiltà Cattolica (1866. Anno XVII. Serie VI. Vol. VIII,  p. 493). Il 4 novembre Tecchio presentava i risultati della consultazione veneta a Re Vittorio, per l’occasione tornato a Torino, il quale lo ricevette nella sala del trono, per collegare l’annessione del Veneto con la ricorrenza della prima guerra risorgimentale del 1848 e con la repubblica massonico-liberale di Manin sorta in quello stesso anno. Vittorio Emanuele tenne un discorso di pretta marca nazionalista. “Signori” — dichiarò il re subalpino — “nel giorno d’oggi scompare per sempre dalla penisola ogni vestigia di dominazione straniera”. Discorso ricambiato dal Menabrea che presentò al sovrano la Corona Ferrea con queste parole, di penoso sapore napoleonico, che oltretutto mal si addicevano a chi era stato appena sconfitto a Custoza e a Lissa: “Questa Corona, o Sire, sarà invincibile, perché difesa dall’affetto di tutti gli italiani. Vostra Maestà può dire a buon diritto: Dio me l’ha data, guai a chi la toccherà!”.  Il 7 novembre Vittorio Emanuele giunge in visita a Venezia  (idem p. 504).

[33] Ne gode l’animo di render pubblica ed onorevole testimonianza de’ nobili sentimenti di umanità, di cui ha dato solenne prova la cittadinanza di Verona, in questi giorni. La sera del 23 giugno, giunsero in Verona due reggimenti di fanteria, provenienti da luoghi lontani, e diretti a prender parte alla nuova battaglia di Custoza, che doveva essere e fu combattuta il giorno 24 dello stesso mese. Il sole ardente aveva già colpito di morte 20 soldati, gli altri, giunti lungo la via di Porta Nuova, erano sì estenuati dal caldo e dalla fatica, che si gittavano per morti lungo le case. La popolazione, mossa a compassione, accorse dalle sue case recando a quegl’infelici alimenti e rinfreschi. Uomini e donne d’ogni età li consolavano pietosamente, sicchè i poveri soldati n’erano commossi e riconoscenti. Il giorno seguente i due reggimenti fecero prove d’insigne valore. Non abbiamo voluto passare in silenzio un fatto, che onora tanto la popolazione di Verona. Così la Gazzetta Uffiziale di Venezia del 27 giugno 1866. Incidenti scoppieranno a Venezia e a Verona fra qualche esaltato liberale e imperiali provocati da quelli col tricolore, soltanto poco prima della partenza delle truppe cesaree, il 6 ottobre 1866. Il generale Jakobs proclamava allora lo stato d’assedio. Persino il Gabinetto sabaudo, presieduto dal Barone Bettino Ricasoli, deplora gl’incidenti scatenati dalla propria fazione e deve riconoscere che “non è degno di un popolo libero che si rispetta e che rispetta la nazione alla quale appartiene, di sollevarsi contro coloro che sono alla vigilia della partenza” (La Civiltà Cattolica. 1866. Anno XVII. Serie VI. Vol. VIII, p. 367).

[34] Cfr. Pappalardo Francesco. La spedizione dei Mille e l’aggressione al regno delle Due Sicilie. In Cristianità n. 94, febbraio 1983, p. 9. Tuttavia  ancora sei anni dopo le province del Mezzogiorno non risultavano dome al nuovo verbo unitario. Il 28 settembre 1866 il generale Cadorna addebitava all’ottuagenario Cardinale di Palermo il subbuglio esistente in quella provincia, invitandolo villanamente a discolparsi; frattanto si sprecano al Sud gli stati d’assedio, i giudizi sommari, le fucilazioni, le grosse taglie in denaro sulle teste dei cosiddetti capi brigante, le pene di morte contro chi desse loro ricetto, le carcerazioni di sospetti a centinaia (cfr. La Civiltà Cattolica. 1866. Anno XVII. Serie VI. Vol. VIII, pp. 364-366).

[35] A dispetto della rumorosa minoranza settaria dei Ciceruacchio, dei Mazzini, dei Garibaldi ecc. che pretendeva di rappresentare i sentimenti di tutto il popolo romano, risulta davvero commovente l’attaccamento, la dedizione e l’affetto filiale nutrito dai Quiriti per Pio IX, l’ultimo Papa Re. Persino le cronache del tempo, condizionate psicologicamente dalla canea orchestrata dai liberali in tutta Europa, se ne stupiscono: un venerdì di Quaresima del 1860, sparsasi di bocca in bocca la voce di una visita privata del Papa sulle tombe degli Apostoli, patrizi, dotti, insegnanti, studenti, mercanti e una immensa folla di oltre quindicimila persone si accalca nella Basilica di San Pietro. Roma si voleva liberale e si scopre, commossa, papalina. Cfr. La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, pp. 19-20.

[36] Pio IX limitò la resistenza delle truppe pontificie, comandate dal generale Kanzler, a un gesto puramente simbolico, affinché il mondo si rendesse conto che si ardiva commettere una vera violenza contro la Chiesa e il suo Principato temporale. Aperta la breccia presso Porta Pia, i bersaglieri continuarono a sparare sui papalini anche quando questi avevano inalberato bandiera bianca. Nell’assedio si distinse per brutalità il garibaldino Nino Bixio, che, irritato perché le antiche mura resistevano ai colpi della sua artiglieria, scaricò l'ira bombardando il quartiere di Trastevere e l’ospedale di San Gallicano. Nei giorni successivi iniziarono le vendette: zuavi pontifici, preti, borghesi, volontari romani furono uccisi dai patrioti o dalle camicie rosse, mentre non si contano i saccheggi, le bastonature, le profanazioni, in perfetto stile rivoluzionario. 4.800 prigionieri papalini di nazione italiana furono deportati nelle fortezze di Mantova, Peschiera, Verona, Alessandria e Torino (cfr. Gallini Giorgio Martedì 20 settembre 1870. La breccia nella Civiltà. Tipografia Poliglotta della Pontificia Università Gregoriana. Roma 1991. Passim). Riferisce poi il corrispondente de La Civiltà Cattolica (1871. Anno XXII. Serie VIII.Vol. I, pp. 210-211) che entrati in Roma i bersaglieri, gruppi paramilitari armati di settari si dedicarono al saccheggio, ad assalire caserme, ad abbattere gli stemmi pontifici, imponendo con la violenza il vessillo tricolore ai balconi e a incendiare “i registri troppo compromettenti per certi onesti patrioti”. “Mentre le truppe pontificie […] si ritiravano nella Città Leonina […] quelle turbe di patrioti le perseguitavano con ogni maniera di insulti e di violenze.[…] Ognuno era frugato, percosso, derubato degli oggetti di valore, che poi con apparenza di spartana virtù si gettavano giù nel Tevere … dove erano pronte barche di complici che coglievano al volo i panni, le borse, gli orioli e le catene d’oro così predate. Questa scena schifosa durò tutto il pomeriggio del 20 e tutta la giornata del 21 settembre. […] A poco a poco quasi tutte le truppe pontificie si raccolsero in Piazza San Pietro, dove passarono la notte dal 20 al 21 settembre. E quella notte, coi soliti mezzi di sassaiole, di fiere minacce, di violenze barbaresche, Roma fu in parte illuminata; ed alla luce di quei lampioni potè vedere una vera tregenda che fu descritta da troppi giornali. […] La festa principale si fece ai galeotti tratti fuori, per decreto di quel tal popolo che tutti sanno e liberati dalle carceri; poi condotti in trionfo, come martiri politici per il corso, in carrozza, a lume di fiaccole e corteggiati da mandrie di femmine che non sogliono né possono mostrarsi di giorno fra gente onesta. […] In sul mezzogiorno del 21 settembre le truppe pontificie si riposero in bella ordinanza in Piazza San Pietro, perché quella era l’ora destinata a dover sfilare, fuori di Porta San Pancrazio, innanzi al vincitore Raffaele Cadorna; poi, deposte ivi presso le armi, avviarsi a Civitavecchia. […] Il Santo Padre si affacciò allora al suo balcone ed alla vista dei suoi fedeli difensori e figliuoli, non potè celare la profonda commozione dell’animo suo. Il grido di Viva Pio IX, con cui fu salutato, risuonò così alto e concorde, che nessuno, dopo averlo udito, potrà mai più scordarsene. Il Papa benedisse le schiere e si ritirò” (ibidem). Questa data del 20 settembre è onorata ancor oggi dalla massoneria italiana: ogni anno il Grande Oriente d’Italia dirama ai principali quotidiani nazionali una circolare del Gran Maestro, mentre corone di fiori fregiate di emblemi massonici sono deposte a Porta Pia. Contestualmente la Roma papalina e legittimista, per iniziativa di S.E. il Principe Sforza Ruspoli, fa celebrare con splendida solennità a San Lorenzo in Lucina una Santa Messa in lingua latina a suffragio dei caduti pontifici, alla quale nel 1999 hanno preso parte altissimi prelati, diplomatici, l’Ordine di Malta e il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio (il che ha provocato interpellanze e strascichi pretestuosamente polemici da parte di Rifondazione Comunista in Parlamento).

[37] Pio IX definì la consultazione romana “quella finzione di plebiscito usata nelle province strappate a Noi” (Enciclica Respicientes ea omnia, 1° novembre 1870)  con evidente riferimento a quanto si era compiuto in precedenza nelle Legazioni, in Umbria e nelle Marche. Segue quindi la scomunica latae sententiae per i responsabili: “Noi con l’autorità di Dio Onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dichiariamo a voi, Venerabili fratelli e per mezzo vostro a tutta la Chiesa, che tutti coloro che si distinguono per qualche dignità […] che abbiano perpetrato l’invasione, l’usurpazione e l’occupazione di qualunque provincia del Nostro dominio e di quest’alma città e così pure i loro mandanti, fautori, collaboratori, consiglieri, seguaci o chiunque altro procuri con qualunque pretesto, in qualsiasi modo o operi per se stesso l’esecuzione delle suddette scelleratezze, incorrono nella scomunica maggiore”. [Pio IX si augura quindi] “che i nemici della Chiesa pensino all’eterno dànno  che si vanno preparando, cerchino di placare prima del giorno della vendetta la sua [di Dio] formidabile giustizia e cambiando idea confortino il pianto della Santa Madre Chiesa e la Nostra tristezza” ibidem.

[38] La Civiltà Cattolica. 1871. Anno XXII. Serie VIII. Vol. I, p. 221. L’8 ottobre 1870 il cittadino Don Michelangelo Caetani, Duca di Sermoneta, si presentava a Vittorio Emanuele in Firenze, per presentargli l’atto del referendum romano. Queste le testuali parole del patrizio romano, intrise di falsità, piaggeria e viltà: “Roma, con le sue province, esultante di riconoscenza verso la Maestà Vostra Gloriosissima per averla liberata dalla oppressione straniera di armi mercenarie col valore dell’esercito italiano, ha con generale plebiscito acclamato per suo Re la Maestà Vostra e la Sua Reale discendenza”. A quest’indirizzo di saluto ultranazionalista, Re Vittorio rispondeva farisaicamente d’essere cattolico (sic!) e di “voler assicurare la libertà della Chiesa e l’indipendenza del Sovrano Pontefice” idem, pp. 221-222. Il 1° novembre 1870 con l’enciclica Respicientes ea omnia Papa Pio IX di venerata memoria dichiarava che “tutte le azioni dei ribelli e degli invasori, fin d’ora sono da Noi condannate, annullate, cassate e abrogate. Dichiariamo inoltre, che siamo tenuti in una prigionia tale che non possiamo esercitare sicuramente, tranquillamente e liberamente la Nostra suprema autorità pastorale […]. Noi non acconsentiamo e non acconsentiremo mai a nessuna conciliazione che distrugga o diminuisca i diritti Nostri, e quindi di Dio e della Santa Sede”.

[39] L’episodio avvenne a Cavasagra. Cfr. Beggiato Ettore, op. cit. p. 30.

[40] Manifesto propagandistico affisso in Vicenza alla vigilia del plebiscito veneto. Cfr. Beggiato Ettore, op. cit. p. 14.

[41] Cfr. Beggiato Ettore, op. cit. p. 31. A proposito del plebiscito del 21 ottobre 1860, che comportò l’annessione della Sicilia al nascente regno unitario, l’Autore (p. 29) trascrive un celeberrimo passo de Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, indicativo dei sistematici brogli avvenuti ovunque ai seggi, grazie alla complicità dei capibastone risorgimentali: “Io, Eccellenza, avevo votato no. No, cento volte no. […] E quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco”!

[42] Del resto gli stessi organi della propaganda risorgimentale scrivevano dei plebisciti (qui dicesi in particolare di quello veneto ancora prima che si tenesse) che “sarà più una formalità per appagare la diplomazia, che una cosa di sostanza” (cfr. Gazzetta di Firenze n. 209, 31 luglio 1866 citato in L’Unità Cattolica, 3 agosto 1866).

[43] Nell’Urbe i risultati furono, se possibile, ancora più bulgari: 40.835. No 46. Annessionisti: 99,88 %  Contrari: 0,11%.

[44] “L’accettazione, per essere legittima, deve supporre altresì legittima l’offerta, […] che se altri offerisce cosa che in nessuna guisa non è sua, sanno anche i bimbi che è ladro chi offre non meno che chi accetta. Ora qual diritto poteano avere, non diremo già i popoli di Ducati e delle Legazioni, ma i faziosi che ne usurparono il governo?” Ed anche la fola sul supposto malgoverno di quegli Stati non varrebbe a ribaltare il princìpio: “il supporre che la mala signoria, vera o pretesa, possa conferire ad un popolo il diritto di ribellare al proprio Prìncipe, per annettersi ad altro cui crede meglio, sarebbe ammettere nel suo più crudo significato il mostruoso princìpio della sovranità popolare […] princìpio il quale, attuato nella sua ampiezza, sarebbe il sepolcro di tutte le monarchie”. Così La Civiltà Cattolica. 1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, pp. 7-9. Poco meno di un secolo dopo il  plebiscito del 2 giugno 1946, abolitivo della monarchia sabauda e fondativo della ahinoi! tuttora vigente repubblica italiana, ne costituiva un’impressionante conferma storica.

[45] Contro l’usurpazione e il latrocinio di un terzo dei suoi Stati (Bologna e le Legazioni nel 1859) al quale sarebbe seguito a breve (1860) quello di Umbria e Marche e da ultimo, nel 1870, la presa di Roma stessa, Pio IX fulminò la scomunica maggiore con la Lettera Apostolica Cum Catholica Ecclesia del 26 marzo 1860, accusando apertamente il governo di Vittorio Emanuele di aver tutto tentato col denaro, con la propaganda dei giornali e fornendo armi ai rivoltosi pur di sovvertire gli Stati della Chiesa e, una volta scatenata la sedizione tanto a lungo ordita, avere così il pretesto per intervenire manu militari, insediandovi i soliti Commissari regi. Il Santo Padre, rammentato che “la divina Provvidenza con consiglio al tutto singolare ha disposto che, caduto il romano Imperio e divisosi in molti regni, il Pontefice romano […] conseguisse un principato temporale [e che esso] mira al bene ed all’utilità della Chiesa”, garantendone l’indipendenza da ogni altro potere profano, “dopo aver implorato con private e pubbliche preghiere il lume del Divino Spirito, e dopo aver preso il consiglio di una scelta Congregazione dei Venerabili Nostri fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa, coll’Autorità di Dio Onnipotente e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e con la Nostra, dichiariamo nuovamente, che tutti coloro, i quali hanno perpetrata la nefanda ribellione delle predette province del Nostro Stato Pontificio, e la loro usurpazione, occupazione ed invasione ed altre cose simili […] oppure hanno commesso alcune di tali cose, come pure i loro mandanti, fautori, aiutatori, consiglieri, aderenti o altri quali si siano […] sono incorsi nella Scomunica Maggiore, e nelle altre censure e pene ecclesiastiche inflitte dai sacri Canoni, dalle Costituzioni Apostoliche, e dai decreti dei Concili Generali, principalmente del tridentino […] e se fa bisogno, di bel nuovo li scomunichiamo ed anatematizziamo […] e non poter essi venire assolti e liberati da siffatte censure da nessuno, fuorchè da Noi o dal Romano Pontefice che allora sarà (eccetto che in punto di morte, ed anche allora alla condizione di ricadere nelle medesime censure non appena abbiano ripreso le forze); ed inoltre esser essi inabili ed incapaci a conseguire il beneficio dell’assoluzione, fin tanto che non abbiano pubblicamente ritrattato, revocato, cassato ed abolito tutti gli attentati in qualsivoglia modo commessi  e reintegrato ogni cosa pienamente ed efficacemente nello stato di prima o prestata in altra maniera la dovuta e condegna soddisfazione nelle cose predette alla Chiesa ed a Noi e a questa Santa Sede”.

[46] Lettera Apostolica Cum Catholica Ecclesia del 26 marzo 1860. All’accusa dei liberali, che proviene dall’armamentario dei giansenisti, di aver adoperato Pio IX una sanzione spirituale (la scomunica) a presidio d’interessi terreni, risponde facilmente La Civiltà Cattolica  (1860. Anno XI. Serie IV. Vol. VI, pp. 147-148) che anche se così fosse già l’usurpazione di Stati altrui costituisce in sé un’offesa grave alla giustizia, è cioè un atto moralmente disordinato, un peccato grave e il peccato, si sa, è cosa spirituale che merita una pena spirituale. Ma all’usurpazione, che moralmente è già una colpa, si deve aggiungere “la condizione speciale della cosa usurpata, la quale, per la sua destinazione e per il bene spirituale che ne deriva a tutta la Chiesa, piglia qualità e carattere di cosa strettamente sacra” e cita a riprova un famoso episodio degli Atti degli Apostoli, quello che ha per protagonisti i due coniugi Anania e Saffira, i quali, venduta una proprietà, tennero per sé una parte del ricavato, simulando a San Pietro di avergli dato tutto. Ma San Pietro svelò il loro inganno, li rimproverò di aver mentito non agli uomini ma a Dio e preannunciò ad essi la morte immediata quale castigo inflitto loro da Dio stesso.

[47] Pio IX. Enciclica Respicientes ea omnia. 1° novembre 1870. E parlando degli alfieri della nefasta rivoluzione italiana, qualche giorno dopo soggiungeva: “Questi infelici paiono abbandonati alle minacce del profeta: Accieca il cuore di questo popolo, aggravane le orecchie, chiudigli gli occhi, acciocché non veda con i suoi occhi, non oda con le sue orecchie, non intenda col suo cuore e si converta e lo sani” (Pio IX, Breve a S.E. il Vescovo di Mondovì, novembre 1870).

[48] Ibidem.


...omissis...
 

 
 

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