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Il Secolo XIX Mercoledì 3 dicembre 1997

Duecento anni fa veniva approvata la Costituzione della Repubblica Democratica

Liguria giacobina

Napoleone suggerì: non toccate la religione

Al loro apparire nel 1797, i 400
articoli d'impronta giacobina,
ispirati al modello francese,
scatenarono la
controrivoluzione dei
Vivamaria, soffocata nel sangue

 

di ANTONINO RONCO

Già al suo primo apparire, nell'agosto del 1797, la bozza di Costituzione della Repubblica Ligure, nata dalla rivoluzione di Genova e dalla volontà di Napoleone Bonaparte, aveva scatenato vasti malcontenti che erano sfociati, ai primi di settembre, nella più pericolosa insurrezione dei Vivamaria. Domata quella rivolta che aveva insanguinato le valli del Genovesato, i Monti Liguri e diverse aree della Riviera di Levante, il governo provvisorio si trovò di nuovo alle prese con la necessità di sottoporre il testo, fonte di tante discordie, alla approvazione popolare. In quella prospettiva tutti, a Genova, erano convinti che l'opposizione dei Vivamaria si sarebbe ripetuta e in forma anche più violenta. Si trattava pertanto di rivedere il documento cercando di sfumarne i punti più allarmanti per l'elettorato cattolico. A questo fine fu nominata una Commissione, formata dai cittadini Corvetto, Bertuccioni, Lupi, Sommariva e Rossi, con il compito di apportare le opportune modifiche al testo originale e di sollecitare anche i consigli di Bonaparte. Il generale, dimostrando ancora una volta il suo interesse nei confronti dei genovesi, rispose il 6 ottobre da Passariano (Udine), con una lettera in cui, tra l'altro, affermava: «Se voi volete credere ad un uomo che prende vivo interesse alla vostra felicità, mettete in termini più chiari, nella vostra Costituzione, ciò che ha potuto allarmare i ministri della Religione: e non perdete mai di vista che se voi mettete la religione, dirò anche di più, la superstizione, alle prese con la Libertà, la prima prevarrà nello spirito del popolo». E nello stesso giorno, in un'altra lettera indirizzata al rappresentante francese a Genova, Ministro Faipoult, ritornava sull'argomento precisando: «La Costituzione non si esprime in maniera abbastanza chiara su alcuni articoli che possono dare qualche inquietudine ai monaci e ai preti. Impegnate il governo a dar loro soddisfazione».

Constatata la buona disposizione di Bonaparte a guidare la revisione della bozza di Costituzione, il governo provvisorio decise di inviare a Milano Alessandro Lupi, accompagnato da Faipoult, per chiedere al generale più precise indicazioni sulle correzioni da apportare agli articoli contestati. La lettera di risposta porta la data dell'11 novembre; in essa Bonaparte non si limitò ad enunciazioni di principio, ma scese nel dettaglio dell'organizzazione del potere, della suddivisione del territorio, della amministrazione della giustizia e del bilancio.

Ma per restare ai temi riguardanti la religione, quelli che avevano scatenato i Vivamaria, il generale sosteneva che «non basta non far niente contro la Religione; bisogna ancora non dare alcun motivo di inquietudine alle coscienze più timide e delicate, né alcun'arma agli uomini malintenzionati». E senza incertezze suggeriva: «Sopprimete gli articoli 403 e 404 del progetto di Costituzione (in essi si trattava dei benefici del clero e delle licenze matrimoniali), disposizioni che debbono semplicemente essere oggetto di una legge particolare», prospettando con ciò una specie di concordato tra Stato e Chiesa.

È sorprendente come le indicazioni del generale collimassero con quelle dell'arcivescovo di Genova Giovanni Lercari, il quale, in un documento intitolato "Motivi del Cittadino Arcivescovo sopra alcuni articoli del Progetto di Costituzione per il Popolo Ligure" (senza data, ma certamente antecedente i contatti tra il governo e Bonaparte), contestava alcune posizioni sostenute in quel progetto. Già nella dichiarazione preliminare, in cui il popolo ligure stabiliva di unirsi, per l'avvenire, in una sola famiglia coll'adottare una Costituzione fondata sui veri principi della libertà e dell'eguaglianza, il prelato rilevò una grave improprietà, là dove era detto: «Il Popolo Ligure... proclama solennemente, davanti alla Divinità, i seguenti principi...». «Si osserva», scrisse l'arcivescovo, «che la parola Divinità è comune agli idolatri e potrebbe offendere alcuno. Meglio sarebbe quindi usare altra espressione... più conforme alla Divina Maestà». E infatti, nella Costituzione riveduta e corretta, il «davanti alla Divinità» fu cambiato in «al cospetto di Dio».

L'inizio degli articoli veri e propri della Costituzione obbligava l'arcivescovo Lercari ad un altro e più pesante intervento. L'articolo 4 del 1° capitolo dettava: «La Repubblica Ligure conserva la Cristiana Cattolica Religione e il di Lei pubblico culto». «Questo articolo - notò l'arcivescovo - non ci assicura della Conservazione della nostra Santa Religione a motivo dei seguenti articoli (che esaminava) tra cui, prima d'ogni altro, l'articolo 5: «La Repubblica Ligure... non permette che alcuno sia molestato per opinioni religiose e per l'esercizio privato di altri culti». Assolutamente il prelato non poteva essere d'accordo e non ne taceva il perché: «... Questo articolo - sosteneva - toglie alla Chiesa l'esercizio della potestà conferitale da Gesù Cristo... Un figlio, un dipendente, un qualunque cristiano, che sedotto rinunzi alla Fede, si dichiari Ateo, Materialista, Deista, Eretico, si applichi all'esercizio privato di altro Culto non potrà dal Genitore, dal Superiore, dal Pastore essere sgridato...; non potrà, nelle forme convenienti essere discretamente punito, perché tutto questo sarebbe molestare alcuno per opinioni religiose». E proseguiva facendo appello alla dottrina del Vangelo, alle lettere degli apostoli, alle massime del Concilio di Trento e a quelle delle facoltà di Teologia. Anche questo articolo fu emendato e nell'edizione finale suonò cosi: «La Repubblica Ligure conserva intatta la Cristiana Cattolica Religione, che ha professato sinora».

 

Monsignor Giovanni Lercari, arcivescovo di Genova alla fine del Settecento. Ritratto di Anonimo

 

Molti non furono soddisfatti neanche da questa enunciazione, dato che non si fidavano di quell'«intatta»; ma l'arcivescovo Lercari la prese nel senso migliore e l'accettò.

La "purga" della Costituzione giacobina e giansenista non si fermò qui. Dopo la lezione di Bonaparte e le critiche del prelato, i revisori impugnarono decisamente la scure e caddero decine di articoli che, in un modo o nell'altro, avevano a che fare con il clero e ledevano i sentimenti popolari o radicate tradizioni. Così si abolirono gli articoli che riguardavano gli usi correnti sul maggiorascato (norme che consentivano di concentrare i beni di famiglia su un solo erede, in modo da garantirgli quel «congruo patrimonio» necessario, secondo le leggi della Repubblica aristocratica, per accedere alla carriera politica).

L'articolo 218 (cap. IX): «La Repubblica non conosce altro potere giudiziario che quello stabilito dalla Costituzione. Non soffre che alcun individuo sotto qualunque pretesto... eserciti potere giudiziario nel suo territorio...», fu invece mutilato delle parole «non soffre», perché la seconda parte negava ogni giurisdizione episcopale e il diritto d'Asilo. Caddero del pari, anzi furono addirittura soppressi, alcuni articoli; il 398, che recitava «I beni Ecclesiastici di qualunque natura sono beni della Nazione»; il 405: «Il Direttorio amministra esclusivamente (cioè in via esclusiva) le lascite e le rendite destinate a pubblico benefizio» (il che avrebbe tolto a parroci e conventi gran parte dei loro introiti) e infine il 506 che riguardava la costruzione di cimiteri lontano dall'abitato, abolendo, per l'avvenire, i sepolcri nelle chiese.

Così emendato, il testo della Costituzione democratica venne sottoposto all'approvazione popolare il 2 dicembre 1797. Essendo l'elettorato quasi interamente analfabeta, si scelse un sistema di voto adatto ai votanti. I presidenti dei "seggi", installati nelle chiese, negli oratori e in altri locali disponibili, lessero ai convenuti - i cittadini attivi - l'atto costituzionale, quindi invitarono, chi approvava, a riunirsi alla loro destra, e a passare invece a sinistra chi si dichiarava contrario. I primi a votare, alle 9, furono i membri del governo, che approvarono all'unanimità.

A conteggio ultimato, la Costituzione risultò accettata da 115.890 votanti e respinta da 1.192. Non si sa però quanti degli uni e degli altri, confusi per la grave responsabilità, scambiarono la destra con la sinistra. Questa Costituzione, copiata da quella francese dell'anno 3°, fu definita «l'abito di un gigante adattato alle spalle di un pigmeo».

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