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Il Lavoro - Repubblica Giovedì 23 aprile 1998
Intervento Leggende e anniversari

Testimone di Genova

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La sera di lunedì 20 aprile dialogando nella chiesa di San Donato Arnaldo Bagnasco, eletto in Comune nelle file del Pds, ha affermato che il "Centro storico rappresenta le radici della nostra cultura di Genovesi". Ha perfettamente ragione: i popoli trovano la loro essenza nella loro storia, nei valori espressi dai loro avi, nelle loro tradizioni, nei loro simboli, nelle pietre che ci sono state tramandate. L'Italia, si sa, è stata per quasi tutta la sua storia un crogiuolo di diversità, di culture, di lotte intestine e di guerre contro lo straniero. Anche per questo l'Italia era viva, fiera e ricca; anche se appartenenti a comunità e Stati differenti, i popoli italici sapevano di appartenere alla stessa terra, alla stessa cultura. Poi venne l'unità d'Italia (lo stato che si sostituiva ai popoli), quindi il fascismo e la cosiddetta guerra di liberazione: una guerra che, con differenti motivazioni, gli italiani hanno fatto tra di loro.

Quali sono oggi i valori fondamentali e unificatori del popolo italiano? Quali sono oggi le radici di noi Genovesi? Da cinquant'anni la sinistra ha utilizzato il mito della Resistenza come livella per renderci tutti uguali e per combattere i diversi, per discriminarli, per delegittimarli. Oggi stiamo per entrare nell'Europa delle burocrazie statali, nell'Europa dei vincitori e dei vinti del passato, dei nemici e degli alleati di ieri: tutti egualmente dimentichi della grandiosa Storia d'Europa: storia di popoli e di culture. Può, in questo contesto la guerra di Liberazione, guerra tra Italiani, essere l'elemento unificante? Io credo di no: non lo è stata fino ad oggi e non lo sarà domani. Per questo sempre più persone guardano a radici più lontane, al centro storico invocato da Bagnasco. Ed ecco che la Storia di Genova rivela, a chi è libero di coglierne i frutti, l'esistenza di una forma statuale diversa, meno burocratica, per niente figlia del giacobinismo francese, come lo furono il fascismo, il nazismo e, soprattutto, il comunismo. Ed è a questa storia, ai valori che essa ha rappresentato che la nostra associazione, l'Arge, guarda: confortata dal fatto che le più prospere comunità sono oggi costituite quasi a modello dell'antica Repubblica di Genova: penso a Singapore, ad Amburgo, a Brema. Ed è al futuro di Genova e dei suoi cittadini, in un'Italia e un'Europa dove i popoli contano, decidono e prosperano, che l'Arge pensa.

Spiace quindi leggere sul "Lavoro" di mercoledì 22 aprile che chi guarda al modello genovese come a un modello di stato efficiente sia tacciato di "non-pensante" da padre Giacomo Grasso. Rammarica leggere che Genova fu crogiuolo di malfattori e commercianti disonesti. Ma non dimentico che quando l'ala dell'ignoranza e della cecità cade sui popoli sta agli spiriti elevati farsi carico della testimonianza: purtroppo oggi tocca a me testimoniare.

Il Presidente dell'Arge
Franco Bampi

Genova, 22 aprile 1999

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Il Lavoro - Repubblica Mercoledì 22 aprile 1998
Intervento Leggende e anniversari controversi

S. Giorgio e il drago
simbolo della Resistenza

Questa settimana finisce col 25 aprile, festa della Liberazione, checché se ne dica, con nessuna competenza culturale, né senso della storia né tanto meno coscienza dei beni morali in gioco, qualche amministratore locale. Non merita il termine "sindaco" se non, come usavano dire i logici antichi, "ut nomen, non ut principium". Lo sono solo di nome. Non nei fatti, perché di fatto, non aiutano, e lo dovrebbero, la comunità civile a crescere, anche nella verità.

Il 23 aprile, però, è San Giorgio, patrono della Repubblica di Genova. Ne scrivo ben lontano dal non-pensare di quanti rimpiangono la nostra Repubblica. Evento storico plurisecolare che va però trattato dagli storici. E a Genova tanti ce ne sono che ne studiano le complessità. Non era però il Paradiso terrestre la nostra Repubblica. Era un crogiuolo di malfattori, briganti, commercianti tanto disonesti da arricchire enormemente. Anche intelligenti. Qualcuno, con la grazia di Dio, è certamente riuscito a vivere bene. Altri sono stati sollevati dalla Misericordia di Dio, e solo da essa, per l’intercessione della Madonna di Genova, quella della misericordia, appunto. Festeggeremo San Giorgio, non pensando ad una Repubblica di Santi ma di mercanti, per usare il bel titolo che Gabriella Airaldi dà ad un suo libro sul genovese Jacopo da Varagine. Fu domenicano in San Domenico di Genova (era ove sorge il Teatro Comunale dell’Opera, non uso il nome proprio per rispetto ai Gavotti, Ruffini, Briglia, martiri della Giovane Italia). Fu lo straordinario Autore, oggi studiato dovunque, della raccolta di vite di Santi, tra essi San Giorgio, detta "Leggenda Aurea" che non è biografia di Santi, ma presentazione dello stile del Santo e dunque libro "da leggere". È Jacopo che dà consistenza al San Giorgio che uccide, da cavallo, il drago. Un caro, anziano amico, già Console Generale di Islanda a Genova e gran importatore di merluzzo, Carlo Alberto Rizzi, in una spiritosa e saggia poesia su San Giorgio lo immagina, umiliato, allontanarsi da Portofino. Pensa di aver visto male. Ma San Giorgio gli dice che ha visto benissimo: "E scì, son proprio mi, che vaddo a fa di letti".

Rizzi pensava che la riforma liturgica voluta dal Concilio avesse eliminato San Giorgio. Esso, invece, resta anche se in una posizione defilata, in genere in Italia, ma non a Genova, Reggio Calabria, Barcellona in Catalonia dove è ancora tra i protettori principali. Non dovrà più, il San Giorgio profugo da Portofino, dire con Rizzi: "... E no, no vaiva a speisa - prosegue co-o magon -/ no vaiva proprio a speisa de dase co-o dragon..."

A Genova sarà particolarmente festeggiato anche da "A Compagna", nella chiesa di San Giorgio, in via di sistemazione esterna. In tante altre chiese in tutto il Genovesato e la Liguria.

In qualche modo sarà anche presente nel giorno, 25 Aprile, sabato, della Liberazione.

La lotta di San Giorgio col drago, lo spiega bene Rizzi, è metafora della lotta del bene contro il male. Il male incatena. Il bene libera. Per la verità Rizzi crede un falso il fatto della battaglia col dragone. San Giorgio conferma: "Scì, scì o me dâ raxon, l’é vea, perché l’impreisa / l’é solo unn-a metafora: dev’ese interpretâ.../: l’é l’eterno conflitto do ben che o lotta o ma..."

La lotta di Liberazione è stata una battaglia perché ciò che è bene morale potessero avere la meglio, anche se spesso, per citare Otto Mann, storico tedesco, figlio di Thomas, è stata, e lo ricorda anche Claudio Magris in "Danubio", una lotta a mani nude contro la potenza del terzo Reich.

Lo è stata per tanti non credenti e per tanti credenti. Si leggano le pagine splendide e forti del volume che riporta le lettere dei condannati a morte della resistenza europea. Per chi crede il drago nazista è stato, come racconta Jacopo nella "Leggenda", e lo ripropone il libro citato dall’Airaldi, ucciso "dalla lancia della preghiera, da quella passione di Cristo e da quella della carità". Per i non credenti dalla fede nella verità, nella libertà e dall’amore fraterno. E non è poco.

Padre Giacomo Grasso

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