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Che l'inse? marzo 2006 - numero 33
Bollettino informativo della Associazione Repubblica di Genova

Il futuro della lingua genovese

Franco Bampi

Nella prefazione alla seconda edizione del «Dizionario Genovese-Italiano» di Giuseppe Olivieri (edita da Giovanni Ferrando, Piazza S. Matteo, Genova 1851, la prima edizione, del 1841, rappresenta il primo dizionario genovese-italiano che ha visto la luce) si legge testualmente: «Precipuo scopo di questo mio Dizionario si fu quello di agevolare a’ miei concittadini il modo di trasportare i loro concetti dal dialetto genovese nella lingua comune d’Italia». E non poteva che essere così. Allora il genovese lo parlavano tutti, ma proprio tutti. Era l’italiano a non essere parlato e, dai più, nemmeno ad essere capito!

Prima di proseguire, però, lasciatemi dire che userò la parola “genovese” per indicare genericamente la parlata del posto usata dalle persone che quel posto abitano. So benissimo che questa parlata varia da luogo o luogo (da casa a casa, diceva Vito Elio Petrucci), ma non mi piace usare la parola “ligure” perché storicamente fasulla. A questo proposito cito Giovanni Assereto, savonese e professore di Storia Moderna presso la nostra università, che scrive: “...il nome «Liguria» e l'aggettivo «ligure»: termini, questi ultimi, con una storia curiosa. Essi erano sempre rimasti confinati nel linguaggio erudito e riferiti all'antichità, o tutt'al più utilizzati dalla diplomazia repubblicana per corroborare certe sue pretese di sovranità: era questo il caso, ad esempio, dell'espressione «Mare Ligusticum» usata per indicare l'alto Tirreno e per affermare l'antico predominio su di esso da parte della Superba. A parte ciò, si parlava abitualmente di «Repubblica di Genova» e di «Genovesato»; gli stessi abitanti delle riviere, quando andavano in paesi forestieri, si autodefinivano «Genovesi»; tanto che la parola «ligure», paradossalmente, nei dialetti della Liguria neppure esiste”.

Ma ritorniamo alla nostra lingua “genovese”. Oggi le cose sono esattamente al contrario di allora. Tutti sanno parlare l’italiano (spesso malamente o imbarbarito da termini inglesi) e sempre meno sanno parlare il genovese. E sempre oggi si assiste a un curioso fenomeno: molti vorrebbero poter imparare il genovese. Cosa fare allora? Premesso che corsi occasionali di genovese (come quelli che faccio anch’io) servono solo a soddisfare la curiosità dei partecipanti, ma non servono per la diffusione del genovese e della cultura genovese, bisogna innanzi tutto decidere quale obiettivo si vuol raggiungere. Farò due ipotesi.

La prima ipotesi è quella di diffondere una certa conoscenza della lingua e della cultura genovese; ad esempio, far sapere che esiste una letteratura scritta ininterrotta dal 1291 (con l’Anonimo Genovese) ad oggi. In questo caso è fondamentale la formazione degli insegnanti che può avvenire solamente attraverso le istituzioni preposte. Occorre individuare il maggior numero di insegnanti che sappiano parlare correntemente il genovese (e ce ne sono) ai quali fare un corso di formazione per insegnare il genovese, la letteratura e anche la storia. A questo punto le varie scuole o le varie associazioni che desiderassero un corso di genovese avrebbero a disposizione un congruo numero di insegnanti preparati. Questa soluzione difficilmente riporterebbe il genovese ad essere, come fu, lingua di comunicazione e a mantenere tutte le innumerevoli varianti, ma darebbe l’opportunità, a chi lo desideri, di poter imparare il genovese quasi come si impara l’inglese o l’arabo. Un’altra cosa da fare è quella di inserire nelle scuole materne “nonni” o “nonne” che sappiano parlare bene il genovese. I nonni sarebbero a disposizione delle maestre e farebbero ciò che le maestre dicono loro di fare con un’unica clausola: col nonno si parla genovese: qualunque cosa, dal disegnare al costruire un oggetto, il nonno parla sempre in genovese e sollecita il bambino a fare altrettanto.

La seconda ipotesi è quella di promuovere nuovamente il genovese come lingua di comunicazione a Genova e in Liguria. Qui, oltre a quanto detto prima, occorrerebbe un notevolissimo sforzo culturale per far comprendere l’importanza della lingua quale elemento di appartenenza a una comunità e poiché questa impostazione ha un rilevante ruolo politico temo che vi sarebbero opposizioni di tipo politico, più ancora che di sostanza. Voglio però ricordare il caso della lingua ebraica, riportata in auge dal popolo ebreo come lingua ufficiale di Israele proprio con le motivazioni di identità di cui parlavo prima: ma per gli Ebrei questo desiderio era ed è sentitissimo.

Quale conclusione quindi? Il problema è complicato perché, come ho cercato di dire, dipende quasi esclusivamente dalla volontà di chi sa parlare il genovese il continuare a farlo. Per questo ritengo doveroso terminare invitando tutti, ma proprio tutti, coloro che parlano il genovese a parlarlo se non sempre, almeno il più spesso possibile e con tutti i possibili interlocutori. Ad esempio, io parlo in genovese con molti colleghi professori universitari. E ricordiamoci: se non parleremo più la nostra bella lingua la colpa non è del governo (piove, governo ladro), non è degli immigrati irregolari o delle ferree regole della Comunità europea: se non parleremo più il genovese la colpa è solo nostra, di noi che sappiamo parlarlo e abbiamo smesso di farlo.

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